Spike Lee è un regista da sempre impegnato a trattare temi delicati e attivo in particolare nella rivendicazione e nella difesa dei diritti civili della popolazione nera. Il suo film più recente, BlacKkKlansman, non fa eccezione: tratto da un’incredibile storia vera, racconta vicende avvenute quarant’anni fa ma oggi purtroppo più attuali che mai, come ricordano dolorosamente le immagini finali dell’opera.
America, anni ’70, epoca di grandi rivolgimenti sociali: le uccisioni di Malcolm X e Martin Luther King sono ancora fresche nella memoria collettiva, il movimento Black Power è al suo apogeo e sempre più afroamericani predicano la necessità di una rivoluzione violenta per conquistare i diritti loro negati. A Colorado Springs, nella provincia più profonda, il giovane detective Ron Stallworth (John David Washington) è il primo poliziotto di colore della città. Il suo arrivo è accolto con scetticismo e ostilità dall’ambiente circostante, ma lui non si scoraggia; deciso a cambiare le cose dall’interno, intraprende una missione all’apparenza folle: infiltrarsi tra le fila del Ku Klux Klan. Per farlo avrà bisogno dell’aiuto di Flip Zimmerman (Adam Driver), amico e collega ebreo: mentre Ron gestisce i contatti telefonici coi membri di una cellula locale, Flip lo impersona negli incontri dal vivo, a rischio della propria vita. L’operazione sotto copertura arriva a svelare una rete più larga e pericolosa di quanto ci si aspettasse e rivela il piano omicida del Klan: un attacco terroristico contro la marcia per i diritti civili organizzata dalla locale unione studentesca nera e dalla sua presidente Patrice, interesse amoroso di Ron.
BlacKkKlansman è una satira tagliente e corrosiva sull’America di ieri, nella quale si rispecchia quella di oggi. In un periodo in cui le storie sulla lotta per i diritti civili sono state sdoganate in biopic drammatici e film appesantiti da retoriche eccessive, Spike Lee va contro corrente e sceglie la strada della commedia per far ridere lo spettatore ma, allo stesso tempo, invitarlo a riflettere su un tema estremamente serio. Divertente, a tratti esilarante, BlacKkkLansman è un poliziesco in puro stile Blaxploitation, genere continuamente richiamato nel corso del film sia a livello intradiegetico che nello stile di regia e fotografia, con espedienti quali lo split screen e la pellicola granulare.
Il lato comico del film però, lungi dal comprometterne la serietà del messaggio, ne potenzia la trasmissione. Quanto più i membri del Klan vengono tratteggiati in toni caricaturali da macchiette stereotipate e le loro dichiarazioni raggiungono livelli di assurdità che sfociano nel parossismo, tanto più lo spettatore è colpito dalla gravità della realizzazione quando si rende conto di come quegli individui e quelle ideologie siano soggette a una preoccupante palingenesi nel mondo contemporaneo; quelle stesse parole talmente ridicole da spingere al riso sono oggi pronunciate con piena convinzione da milioni di suprematisti e razzisti americani, e non solo dagli ignoranti white trash di provincia, ma persino dai massimi esponenti del sistema politico.
Spike Lee è riuscito a dipingere un quadro di quegli anni libero da ogni retorica faziosa, mostrando luci e ombre in entrambi gli schieramenti, ma sempre consapevole della loro immane differenza di distribuzione e delle diverse magnitudini di forze in campo. Non tutti i poliziotti sono razzisti in BlacKkKlansman, non tutti i neri sono nel giusto nelle loro convinzioni, e persino un membro del KKK può risultare quasi simpatico per la sua paradossale ideologia di un odio non violento che ne provoca l’ostracismo dal gruppo. Eppure, non ci sono mai dubbi su chi sia la vittima e chi il carnefice: una distinzione che rasenta l’ovvietà, ma che per una ragione ben precisa Spike Lee sente l’assoluto bisogno di rimarcare nel corso del film e in particolare nel bellissimo montaggio parallelo che vede contrapposti il rituale d’iniziazione del Klan e il racconto del barbaro linciaggio di Jesse Washington nel 1916.
Tale ragione, cui si è già alluso nel corso dell’articolo, è anticipata dal personaggio di David Duke, ex Gran Maestro del Ku Klux Klan passato con successo alla carriera politica, e rimarcata con dolorosa e disperata rabbia alla conclusione del film, dove le vicende narrate lasciano il posto alle immagini reali dei fatti accaduti a Charlottesville nel 2017, quando un suprematista bianco travolse un corteo di pacifici manifestanti antirazzisti uccidendo la giovane Heather Heyer. Questa ragione risponde al nome di Donald Trump che, all’indomani dell’avvenimento, pronunciò testuali, raggelanti parole: “I think there is blame on both sides.” E ancora: “You had some very bad people in that group. But you also had people that were very fine people, on both sides.”
Le parole di Trump, sintesi e legittimazione del malato pensiero suprematista, vogliono normalizzare l’ideologia Nazifascista, istituzionalizzare l’odio, far passare il razzismo come semplice opinione, lecita e giustificabile in sé stessa, mettendo sullo stesso piano suprematisti e antirazzisti. Le immagini delle recenti sfilate di estrema destra si sostituiscono a quelle del film e il cambiamento è a fatica distinguibile, talmente marcate sono le similarità; all’improvviso quegli individui che oggi marciano in parate illuminate dalle stesse torce e scandite dagli stessi slogan del Ku Klux Klan diventano persone rispettabilissime, mentre chi si batte contro l’odio e la violenza non è in questo esente da critiche, colpe, biasimo. Blame and nice people on both sides, dice Trump, e allora non sorprende vedere a Charlottesville il Gran Maestro David Duke professarsi ottimista nella rinascita del white power sotto la guida del Presidente degli Stati Uniti.
Con BlacKkKlansman, Spike Lee ci ricorda che non bisogna abbassare la guardia, che razzisti, suprematisti, antisemiti sono tra di noi, oggi come allora – e lo fa con un sorriso preoccupato.