Leggenda privata: romanzo di una vera infanzia

Per Enzo Mari la creatività è il cancro dell’arte, qualcosa che allontana l’artista dal vero e unico obiettivo: il riferimento costante ai grandi modelli della tradizione. Enzo Mari non è solo uno dei più importanti designer del 900, è soprattutto il padre di Michele Mari.

Per nostra grande sfortuna, o per nostro grande privilegio, le radici non si cambiano e il bambino Michele è diventato uno scrittore che deve al padre una buona dose di mostri da smaltire in inchiostro, ma anche una convinzione poetica salda: la scrittura non si abbassa, l’unico registro possibile è quello letterario. Lontano dallo sperimentalismo avanguardista, l’ispirazione dello scrittore Michele Mari proviene solo dalla tradizione e l’illuminazione per qualcosa di nuovo sempre dal recupero sapiente del passato.

Ecco spiegata l’impronta stilistica di Leggenda Privata, freschissimo prodotto Einaudi (2017) arrivato direttamente dalle tenebre d’infanzia dello scrittore, il quale ancora una volta, dopo il dolorosissimo Rondini sul filo (1999), si mette a nudo.

Stavolta però a chiederglielo sono proprio i suoi demoni, più domestici e attivi che mai: I ciechi, La Sagoma, La donna dalle orbite vuote, La vecchia; chiedono un’autobiografia, vogliono la storia della sua vita, vogliono la verità e Michele la nasconde in un ricamo di parole non dette. Quella di Mari potrebbe essere definita una scrittura eufemistica, una scrittura di sottintesi e di immagini che non palesano mai il loro significato con vigore diretto e improvviso ma solo con una minuziosa formalizzazione dei contenuti.

Come è chiaro dalla presenza dei personaggi sopra elencati, già dalle prime pagine sembrano coesistere due nuclei narrativi, l’uno a sostegno dell’altro: da una parte quello autobiografico, che ci racconta di un Mari bambino e poi ragazzo che cresce e trascorre, tra violenza e autolesionismo, una vita piena di episodi che graffiano segni indelebili; dall’altra un nucleo che deve molto per toni, colori e riferimenti al romanzo gotico. Siamo dunque di fronte a una delle tante sfumature dell’autofiction, in cui elementi veritieri si fondono e vengono sostenuti da elementi non solo fittizi ma addirittura fantastici.

I ricordi di Michele, realistici al punto tale da risultare materia viscosa e tetra, sono quindi diluiti nell’irrealtà, ammorbiditi da immagini simboliche: solo con la perfetta commistione tra finzione e realtà è possibile raggiungere la catarsi da se stessi.

Tra le immagini sfocate di una fatata cameriera e l’anamnesi di un dolore atroce che perdura da generazioni,  i topoi del gotico e dell’horror continuano a ballare la loro danza macabra intorno a Michele, che cresce a ogni pagina ma rimane sempre un bambino spaventato e incatenato dalle sue stesse paure. Centrali le figure dei genitori con i quali vive un rapporto di amore estenuante e di terrore: la madre, prima bacio della buonanotte rubato, poi principessa da proteggere, poi creduta ultra-corpo e osservata con sospetto; e il padre con il suo irraggiungibile potere e la sua imprevedibile furia, dei quali unico riscatto, forse, sono proprio queste pagine. Nonostante l’alto tasso di finzione, Leggenda Privata concede una grande lezione riguardante l’autofiction: non esiste nulla di più orrifico e romanzesco della vita vera.

 


FONTI
M. Mari, Leggenda Privata, 2017, Einaudi, Torino. 

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