La colpa e la responsabilità del vivere: Il rimorso, di Alba de Céspedes

Alba de Céspedes (1911-1997) è una scrittrice italocubana praticamente sconosciuta alle generazioni più giovani. Se si cercano i titoli dei suoi libri sulla più grande piattaforma di vendita online, si trovano per lo più quelli usati. La casa editrice Mondadori, con cui pubblicava in origine, ha sospeso nuove edizioni dei suoi romanzi, dedicandole solo un mastodontico (e costoso) volume della collana «I Meridiani». Eppure, nonostante il velo di oblio, in vita era una delle personalità artistiche più influenti del panorama culturale nostrano. Alba de Céspedes fu partigiana della Resistenza romana e partecipò allo sviluppo letterario dell’Italia del dopoguerra, attraverso la stesura di romanzi impegnati socialmente e caratterizzati da una elaboratissima ricerca stilistica. Solamente negli ultimi anni la critica italiana ed estera le riserva la giusta attenzione. Per celebrare la sua attività intellettuale e il suo impegno sociale e politico, noi de Lo Sbuffo vogliamo affrontare, dopo la recensione di Quaderno proibito, l’analisi di un altro dei suoi romanzi più impegnati e centrali nella sua produzione artistica: Il rimorso (1962).

Questo romanzo costituisce un’ulteriore tappa nell’evoluzione stilistica della scrittrice, poiché sviluppa lo studio sull’interiorità dei personaggi attraverso la tecnica della prima persona, nel tentativo di tratteggiare individualità complesse e credibili, in una scultura minuziosamente dettagliata e a tutto tondo. La trama è semplice e viene articolata attraverso una variegata corrispondenza, intervallata da una scrittura di tipo diaristico: Francesca scrive alla sua amica di infanzia Isabella, dopo molti anni di silenzio. Le chiede un aiuto pratico, cioè di serbare le sue lettere e di consegnarle al marito Guglielmo per rivelargli un terribile e in un certo senso scontato segreto: il suo tradimento con un giovane architetto e la sua volontà di abbandonare la loro agiata vita di coppia. A fare da contraltare, la scrittura intimista di Gerardo Viani, inviato speciale della Gazzetta, di cui Guglielmo è caporedattore, che vuole abbandonare il giornale per concentrarsi sulla stesura del suo romanzo. Dopo uno spiazzante colpo di scena l’intreccio volge al termine nella sua abituale scansione epistolare, con un finale decisamente inaspettato.

La prima cosa rilevante da notare è che la scrittura non è semplicemente un mezzo di riflessione che i personaggi hanno a disposizione per elaborare eventi e situazioni della loro vita, ma è intesa come azione a tutti gli effetti. Le corrispondenze, infatti, nel loro intrecciarsi modificano i rapporti esistenti tra i personaggi, che nel rivelare se stessi o nel manipolare il destinatario attraverso la finzione svolgono un autentico ruolo attoriale, ma sfalsato e diluito nel tempo. Spesso infatti sono inserite nel testo considerazioni sul servizio postale e i suoi ritardi, sull’angosciante attesa di una lettera temuta e desiderata, la frustrazione di un silenzio protratto troppo a lungo. In questo senso, la configurazione del tempo è di tipo analettico, poiché la sua articolazione si incentra sui ricordi dei personaggi, e il tempo della scrittura arriva a coincidere con il tempo della storia, fatta eccezione per il diario di Gerardo. Inoltre in molteplici occasioni si instaura un meccanismo di focalizzazione multipla, poiché un unico evento viene raccontato dalle prospettive differenti e talvolta diametralmente divergenti dei vari personaggi.

Tutto il romanzo è centrato sui personaggi e sulla loro interiorità e la disposizione delle lettere e delle pagine di diario segue in modo ferreo una linea cronologica. Se da un lato la scrittura è strumento potente di specificità e di differenziazione dei personaggi (che per la loro realisticità quasi saremmo portati a credere che siano veri, realmente esistenti o esistiti), dall’altro, l’unica manchevolezza del romanzo sembra essere un’assente differenziazione linguistica. Tutti i personaggi infatti parlano esattamente la stessa lingua, un italiano medio scevro il più possibile da particolarità dialettali e da qualsiasi inflessione individuale. È evidente che dietro vi si nasconde un’unica mano. Tuttavia, questo tratto trova una sua motivazione contestualizzando l’opera all’interno del panorama italiano: infatti il romanzo si situa ancora in piena stagione neorealista, in cui oltre a una verosimiglianza narrativa, l’esigenza era quella di rendersi comprensibili a un più ampio pubblico, adottando dunque una lingua il più possibile chiara e uniforme.

Il lessico è infatti molto semplice e segue l’uso quotidiano, mentre la sintassi alterna momenti di estrema coincisione a passaggi di articolazione e, al tempo stesso, frantumazione nella confessione del sé, assumendo significati ambivalenti e declinandosi sovente in ragionamenti cerebrali e ambigui. La scrittura procede per associazioni logiche, ricordi che affiorano all’improvviso intervallati da frasi epigrammatiche e taglienti. Tutti questi ingredienti conferiscono una patina di forte carica teatrale: infatti tutte le lettere potrebbero essere intese in quanto monologhi. Il filo rosso che lega tutti i personaggi, anche quelli secondari, è appunto ripreso nel titolo del romanzo, cioè il rimorso.

Concetto polivalente e dalle definizioni molteplici e variegate, questo sentimento o, piuttosto, questa condizione del sé viene vissuta in maniera differente dai personaggi e spesso è accompagnata da un’insoddisfazione di fondo, un’infelicità costitutiva che permea ogni prospettiva. E dunque il rimorso è innanzitutto connesso alla Resistenza, il cui fantasma è onnipresente e marca in negativo le esistenze delle generazioni successive. Davanti ai suoi eroi, Francesca e Gerardo si sentono annientati, incapaci di costruire un futuro all’altezza delle aspettative del periodo di guerra e della dittatura fascista, all’insegna della libertà e dell’autenticità. La nuova, sofisticata oppressione si instaura nel vivere sociale. La Liberazione infatti non ha scardinato i vecchi privilegi, le antiquate e soffocanti convenzioni del vivere sociale, che viene invece percepito come un copione preconfezionato, dal contenuto mortifero perché soffoca la sincerità e l’onesta individualità delle persone in nome di un vuoto conformismo. Così Francesca vuole allontanarsi da una vita agiata e priva di contatto umano, mentre Gerardo rinuncia a un impiego redditizio in nome di una scrittura che esige profondità e dedizione assoluta.

Ma il rimorso è anche la sofferenza cristiana che, nella teoria, permette l’assoluzione dei peccati. La religiosità è un altro tema fondante dell’opera, la linea di separazione che divide i personaggi e, anche in questo caso, marca la loro esistenza in negativo. Se da un lato Francesca e Gerardo proprio nel loro ateismo trovano la salvezza – poiché non credono in un aldilà, il loro unico imperativo è quello di vivere appieno secondo ciò che hanno dentro e l’unico rimorso possibile è quello di tradire «una personalità che non si ha il coraggio di abitare» – dall’altro lato, personaggi come Guglielmo e Isabella fondano sulla religione la crudele doppiezza della loro vita, in cui anche l’esercizio della confessione diventa vuoto conformismo, poiché il pentimento, lungi dall’essere sincero, si configura invece come atto performativo corrotto dall’abitudine e, dunque, senza significato. Ciò che conta, per costoro, è dare agli altri un esempio cristiano, che possa essere di conforto e di ispirazione. Dunque anche la religione fonda sull’apparenza la sua ragione d’essere: non importa che l’anima sia corrotta o macchiata dal peccato, l’unica cosa che conta davvero è curare l’esteriorità, costruire una perfetta immagine di sé iscritta nel solco dei valori cristiani per essere ammirati dal prossimo, per intimidirlo e tracciare una separazione invalicabile.

La scrittura, nella prospettiva di De Céspedes, non è un momento finalizzato all’espiazione della colpa, ma l’azione necessaria per il suo superamento. Infatti è la sua complessità costitutiva a consentire l’elaborazione del sentimento, la scoperta delle radici da cui trae la sua linfa e, infine, la forza necessaria per attraversarlo e andare oltre. Anche nella stesura del suo diario, in realtà Gerardo sta compiendo l’azione di cui ha più paura, e cioè scrivere il romanzo che gli cambierà la vita e che lo renderà davvero uno scrittore. L’opera di De Céspedes dona frammenti di lucida e tagliente riflessione sulla natura dell’uomo e sulla società italiana di inizio anni Sessanta, memore della guerra e tuttavia incapace di realizzare le aspettative partigiane, attraverso uno stile evocativo, intimista e a tratti aforistico, che solleva una sconcertante verità: la colpa non è circoscritta a pochi individui isolati e fuori del comune, al contrario, permea la sostanza stessa della vita e dei rapporti intersoggettivi. Così, quando un giornalista lo intervista per chiedergli del famoso romanzo che sta scrivendo, intitolato Del piacere e della colpa, Gerardo risponde:

«Quale colpa?» Gli amici erano poco distanti; fingevano di chiacchierare, ma seguivano tutto. Uno scrive pagine e pagine, per tentare di definire “quale colpa”, e ora dovrebbe dirlo in due parole: come se fosse possibile. «Tutto quello che non si può dire in due parole non esiste» il giovane sentenziò, perentorio. Io ho replicato: «Ebbene, allora diciamolo in una parola sola. Quale colpa? Questa» e ho indicato attorno. Lui aggrottò i sopraccigli, incerto. «Questa di vivere, di essere qui, io, lei, gli altri, io in poltrona e lei davanti a me col suo blocchetto, senza sapere che cosa significa tutto ciò, perché diciamo certe parole, compiamo certi gesti, a che scopo ci adoperiamo, lavoriamo, soffriamo maledettamente per comparire in un modo invece di un altro e poi, alla fine…»

 


FONTI

A. De Céspedes, Il rimorso, Mondadori, 1962

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