Osama e il piccolo Shota compiono dei furtarelli per garantire il sostentamento famigliare: una serie di semplici gesti costituiscono la tattica che rende insospettabili le malefatte dei ladruncoli.
Inizia così “Un affare di famiglia” il film di Hirokazu Kore-Eda, uno dei registi più importanti del cinema giapponese contemporaneo. Tornando a casa Osama e Shota vedono una bambina giocare sola, abbandonata dai genitori, e decidono di portarla nel loro focolare: si aggiunge un nuovo membro alla simpatica ed umile famiglia, nucleo attorno al quale ruoterà l’intero film. Ad aspettarli Hatsue, la nonna, Nobuyo, la compagna di Osama, e Aki la sorella maggiore di Shota un gruppo così affiatato da non far sorgere dubbi circa il loro legame di sangue. Solo in un secondo momento ci si rende conto di essere davanti a persone incontratesi per caso, e unite dalla voglia di aiutarsi a vicenda.
Kore-Eda sceglie un tema profondo così da realizzare una delle sue migliori opere: la famiglia non si sceglie, ci si ritrova circondati da persone che a volte è impossibile amare; perciò, forse, la vera famiglia è proprio quella che si sceglie guidati dal libero arbitrio. Questa consapevolezza divide in due il film, che parte come una commedia, per niente banale ma sempre divertente, e diventa un film drammatico, dati i risvolti sleganti le corde che tengono stretti tra loro i personaggi.
Nella prima parte tutti mostrano uno sfacciato ottimismo, sorridendo anche davanti agli ostacoli che i protagonisti riescono ad aggirare con azioni inaccettabili. Ma tutto è visto come un gioco, così vengono educati anche i più piccoli, convinti che non ci sia nulla di male nel compiere certe azioni per sopravvivere. Tuttavia un episodio mette uno di loro davanti alla realtà e così la bilancia della giustizia spinge Shota a capovolgere la situazione.
Da ora il film si trasforma in un dramma in cui tutte le certezze vengono infrante: coloro che sembravano amabili angeli custodi, si trasformano in spudorati criminali, accusati di reati per niente trascurabili. E la grandezza del film sta anche nella capacità di sfumare le classiche distinzioni tra bene e male, poiché ciò che conta è l’amore, non le motivazioni iniziali.
Questo non basta a restituire un finale felice, proprio a dimostrazione della volontà registica di disegnare un mondo in cui non c’è spazio per gli affetti: anche il personaggio apparentemente più istintivo lascia posto all’egoismo, preferendo un futuro garantito alle dolci avventure della “famiglia” con cui è cresciuto.
“Un affare di famiglia” è vincitore della Palma d’oro di Cannes, premio meritato senz’altro per la grande semplicità con cui riesce a trattare una vicenda nient’affatto banale. Parlare di famiglia ed educazione non è semplice, e Kore-Eda ci riesce con una delicatezza che non dimentica l’importanza dei legami e del contesto formativo in un mondo ormai disinteressato a tutto.