Nel 1803, quello che forse è stato il più grande pittore inglese, J. M. W. Turner, rappresenta la scena di una nave in rotta verso il porto di Calais, scossa da un vento di bufera e sballottata da un mare in tempesta. Molti anni e molti capolavori dopo, nel 1842, Turner riprende e reinventa gli elementi, le diposizioni, i colori e la narrazione del quadro del 1803, sfumando gravemente le figure in scena, opacizzando lo scorcio sul mare in burrasca e, di fatto, lavorando sull’uccisione di ogni valore figurativo che la rappresentazione – la quale diventa ora mera astrazione – potesse avere. Che ha fatto Turner? Il pittore afferma ciò che tre quarti di secolo prima aveva teorizzato Kant: la privatezza della fruizione artistica, che, lungi dallo starsene ferma su criteri di lettura, è libera di giocare tra infiniti umori estetici, facendo dell’osservatore, lettore o uditore dell’opera d’arte, un soggetto indipendente da concetti, contesti e riferimenti canonici. Se l’arte figurativa lavora spesso, fin dall’epoca di Giotto e Dante, su qualcosa di simile al realismo e su mille tipi diversi di allegoria, interpretabilità e storicità, invece l’astrazione artistica ha rappresentato e rappresenta l’esasperazione di nodi estetici fondamentali, come il sentimento privato, la leggibilità svincolata e la comunione “sgrammaticata” con l’oggetto artistico.
Spostiamoci a New York, negli anni del e dopo il secondo conflitto mondiale. Il centro dell’arte modernista, da Parigi, si è spostato lì. Un elemento storicamente indelebile degli Stati Uniti di quegli anni resterà sempre un importante collettivo di autori che erano finiti a lavorare in quella città: si parla della Scuola di New York, una scuola prevalentemente astrattista. Pollock, de Kooning, Rothko e Gorky sono solo alcuni dei grandi nomi che, in un certo senso, hanno “inventato” la prima arte del tutto “made in USA”. Sulla portata rivoluzionaria del lavoro di questi autori sono stati versati litri d’inchiostro, ma in particolare interessa vedere cosa, del loro astrattismo, faccia sì che ci si trovi di fronte a qualcosa d’altro rispetto a qualcosa di figurativo, esteticamente parlando. Se diciamo “estetico”, diciamo aisthesis, la parola greca per “sensazione”. Certo è che il sentimento estetico, come ci insegna Kant, non si risolve nella sola aisthesis, ma è pur vero che l’incontro percettivo con l’evidenza reale di un oggetto artistico è una materia di mero passaggio d’informazione, di “semplice” status d’attenzione su un referente empirico colmo di dati. Fatte queste premesse, ci possiamo chiedere che cosa mai, nei nostri famosi “cinque sensi”, distingua uno spettacolo astratto da uno spettacolo figurativo, cosa renda Pollock e Turner altro da Canova e Velàzquez.
In realtà, si tratta di qualcosa a livello neuronale che va ben oltre i “cinque sensi”. Eric Kandel, premio Nobel per la medicina e grande esperto d’arte, ha lavorato su questi temi e ci ha fornito del materiale divulgativo per accostarci alla grandezza delle opere astratte «da un punto di vista neuroscientifico». Potremmo dire, in estrema semplicità, che a caratterizzare la percezione di un’opera di Pollock o de Kooning è un certo senso dell’incompiuto che pervade il fruitore. Non si tratta di un non-compiuto michelangiolesco o di uno stimolo alla tensione interpretativa, ma di un consapevole meccanismo di trasferimento del significato nel “libero gioco” del sentimento dello spettatore. Il dripping di Pollock e i campi di colore di Rothko lasciano la macchina nel luogo dell’incidente, lasciano che sia lo spettatore a ricostruire gli eventi. Centrale, per Kandel, è il concetto di “elaborazione top-down”, distinto dall’”elaborazione bottom-up”. Se quest’ultima lavora sull’informazione fornita da meccanismi ben radicati nel nostro organismo evolutivamente sviluppato, la top-down è in qualche modo “indipendente” dal carattere innato (o “hard-wired”) dell’individuo, e lavora a un livello più alto, dal momento che le funzioni mentali di ordine superiore (aspettative, desideri, associazioni etc.) influenzano la percezione immancabilmente ambigua che deriva da meccanismi bottom-up di livello più basso. L’informazione top-down “personalizza” il contesto di ricezione e agisce attivamente su un terreno sensoriale. E qui, per Kandel, risiede un punto centrale nella fruizione di un’opera astratta:
«quando osserviamo un’opera astratta, la mettiamo in relazione con l’esperienza che nella nostra intera vita abbiamo avuto del mondo fisico».
Non abbiamo un accesso diretto al mondo fisico, non siamo immersi in nulla che non sia materia della nostra stessa creatività. Pollock e gli espressionisti astratti questo lo avevano capito, lavorando non solo sulla creazione di un’opera drasticamente tagliata fuori da riferimenti al mondo reale, ma giocando sul complesso sistema do ut des che s’instaura tra ricezione e recepito, tra senso estetico e riferimento materiale. Molto semplicemente: nell’Authumn Rhytm vediamo ciò che vogliamo vedere e ciò che Pollock ci aiuta a vedere. Prova di ciò è certamente nell’assenza di riferimenti spaziali e orientativi nella lettura, fattore che concede la libertà di volare e scardinarsi dai dettagli; oppure la rivalsa avanguardistica del materiale utilizzato, da leggere neurologicamente alla luce della relazione individuata tra funzioni tattili e visive nella corteccia umana.
Insomma, le domande restano molte. Di certo sappiamo che l’artista astratto non era a conoscenza di questi fatti, ma è legittimo chiedersi: il fatto che noi possiamo lavorare su un’intensa mole di dati scientifici che ci permettono di dedurre il meccanismo aisthetico di un Pollock, ci rende lettori migliori della sua opera? L’arte astratta è il meccanismo che la genera? L’analisi del gesto, della lettura, del materiale, dell’anti-mimeticità: cosa valgono, nel parlare del grande sentimento che quel Pollock suscita?
FONTI
E. Kandel, Arte e neuroscienze, Cortina, 2017