A Roma, nel Complesso del Vittoriano, da qualche giorno si sta tenendo una mostra su un artista la cui “anima”, il cui “intimo” sono stati spesso oggetto di mitologia, più che di analisi.
Ciò che rende la sua psicologia complessa, è l’apparente inesistenza di una soggettività a cui far riferimento. E questo per un motivo solo apparentemente inconclusivo: Andy Warhol, com’era stato per Fidia, Raffaello e pochi altri nella storia dell’arte occidentale, è stato l’artista più spontaneamente legato alla sua epoca. Questa caratteristica, non necessariamente parente di un’approvazione universale della sua opera, fa di Warhol il più energico, controverso, sensuale ed emblematico figlio del suo tempo.
Ma come può questo indiscusso mimetismo dell’artista col suo mondo essere un fattore dirimente per l’analisi di quella “persona” che sta dietro alla maschera dell’autore?
A rendere interessante l’arte di Warhol è il contenuto della sua narrazione, che diventa un tutt’uno con il suo stile e la sua personalissima creatività: il soggetto delle rappresentazioni è infatti un’America nel pieno del più potente fervore filosofico della contemporaneità, quello del consumismo. In questo mondo, l’arte di Warhol è pienamente incorporata, è prodotto da crearsi per essere consumato. Ma come distinguere, si sono chiesti molti, la sua genuina personalità dalla sua sfavillante ed eccentrica apparenza? La poetica di questo padre del pop non è distante dal sentimento più ordinario e borghese di quegli anni, che egli fa consapevolmente suo. Ovviamente, la sua narrazione è tutto meno che una misera copiatura della moda del suo tempo. Egli, piuttosto, ne coglie i fondamenti estetici e li armonizza in virtù di un estro sconcertante.
Il punto sull’identità dell’artista, dell’uomo dietro la maschera, è che, in questo altalenare tra creatività e mimesi, non esiste uno Warhol privato, intimo. La sua essenza è pubblica, le sue opere sono estrinseche, legate all’originaria manifestazione di ciò che le circonda. L’essenza di questo genio è dunque un’esistenza impersonale, un manifestarsi nelle immagini ordinarie del mondo, la negazione di qualsivoglia identità psicologica. Warhol era il personaggio pubblico per eccellenza perché non si hanno notizie di un Warhol non-pubblico, non-alla-moda.
L’artista diventava figlio del suo tempo, costituendosi parte integrante e rappresentativa dell’ecologia antropologica di questo nuovo mondo. Vivendo dichiaratamente egli stesso come “si doveva vivere”, gli aneddoti più emblematici sulla sua vita indistintamente pubblica e privata, da egli stesso raccolti nel suo libro La filosofia di Andy Warhol, sono quanto di più pop ci sia. Una dipendente della Factory (il Santo Sepolcro della Pop-art)
«si trasferì a vivere nell’ascensore e non volle andarsene per una settimana finché si rifiutarono di portarle dell’altra Coca-Cola».
Dove avrebbe mai potuto nascondersi, in questo trionfo americanistico, la personalità genuina del suo re? Andy era tutti e nessuno, e viveva un mondo confusionario e impersonale in modo intimo. Egli ha avuto «una storia d’amore con la tv», come racconta, ha notato che «la più bella cosa a Firenze è McDonald’s», ha sottolineato che la cosa più bella del mondo è «la dogana degli Stati Uniti quando torno a casa». La sua psiche, anima e mente, ha sposato il mondo di cui era parte per diventarne la più incantevole, ricca e spregiudicata superstar.
«Quando vuoi somigliare a qualcosa, significa che l’ami davvero. Quando vuoi somigliare a un sasso, significa che ami veramente quel sasso. Io amo gli idoli di plastica.»
Warhol è l’artista che rincorre l’impersonalità fregiandosi del titolo di bardo, cantore, menestrello di una civiltà ancora tutta da scoprire, che egli stesso vuole contribuire a decifrare. Egli ha intercettato quel filo di Arianna che collegava l’occidente post-bellico a una riscoperta estetica: non basta più una cattedrale a contenere ciò che per me è sacrosanto, serve la magia della televisione; non c’è più una Musa ad accudire il sentimento dell’artista, ma le icone della mutevole, veloce e americana fantasia moderna, venduta a prezzi onesti da Vogue, a caro prezzo da Hollywood, conservata nelle labbra di BB, nel neo di Marilyn, negli occhi di Liz Taylor.
Warhol non accantona la bellezza, la iconizza, la moltiplica, la attualizza, la mostra in copertina, la vende. La bellezza moderna esiste, ed è ammessa solo se onestamente prevista dal macro-fenomeno moderno che la contiene, quello dell’industria culturale, come scrive lui stesso:
«La Business art è il gradino subito dopo l’Arte. Ho cominciato come artista commerciale e intendo finire come artista del business».
È in onore dell’amore per la sua contemporaneità che un ometto gracile, albino e malaticcio ha spalmato su se stesso prima che sulla sua arte gli attributi visibili e invisibili dell’uomo contemporaneo, formandosi a sua immagine e somiglianza: ripetitivo, post-maschile, abitudinario, vezzoso, ironico, prezioso.
Cosa pensiamo di sapere di un uomo del genere? Nulla. Cosa realmente sappiamo? Tutto ciò che egli ha costruito ad arte per noi. Non un essere umano, ma un idolo riconoscibile su Marie Claire.
A. Warhol, La filosofia di Andy Warhol, Feltrinelli, 2016