Quest’anno a vincere il Premio Nobel per la pace sono stati una giovane donna irachena e un medico congolese apparentemente distanti tra loro, ma accomunati da un obiettivo forte: quello di battersi coraggiosamente ogni giorno, al fine di preservare la dignità delle donne vittime di stupri di guerra, ufficialmente riconosciuti dalle convenzioni di Ginevra come crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Il Comitato norvegese ha rivelato i nomi dei due vincitori il 5 ottobre alle ore 11: Denis Mukwege e Nadia Murad. Entrambi vincitori del premio Sacharov per la libertà di pensiero – Mukwege nel 2014 e Murad nel 2016 –, oggi insieme hanno meritato il premio più importante per chi combatte per la pace.
L’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani ha affermato, entusiasta della loro vittoria:
“Nadia e Denis, sono certa che parlo a nome di tutti i difensori dei diritti umani quando dico che vi ammiriamo più di quello che le parole possono dire. Avete combattuto affinché venga riconosciuto e affrontato il dolore che le donne hanno sofferto per gli abusi sessuali, e perché venga riaffermata la loro dignità“.
Ma chi sono questi due grandi personaggi le cui sorti si sono così inconsapevolmente incrociate?
Denis Mukwege nel 1988 fondò l’ospedale di Panzia Bakavu, nel Sud Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, dove da allora ha sempre curato le numerose vittime di violenze sessuali: è per questo conosciuto al mondo anche come l’uomo che ripara le donne. Sin da bambino sentì una certa vocazione ad aiutare il prossimo, probabilmente grazie all’educazione ricevuta dal padre, pastore pentecostale, che spesso seguiva nelle visite ai malati della comunità, impressionandosi per il gran numero di donne che morivano a causa delle complicazioni del parto.
Finora si è occupato di circa 50mila donne deturpate dai violenti stupri subiti durante la lunga guerra civile del Paese. Ha eseguito numerose ricostruzioni dell’apparato genitale femminile, sperimentando anche nuove tecniche all’avanguardia, tanto da essere diventato il miglior esperto mondiale in questo tipo di chirurgia.
“Ogni donna stuprata io la identifico con mia moglie. Ogni madre violentata la identifico con mia madre. E ogni bambino vittima di stupro, io lo identifico con i miei bambini. Come possiamo restare in silenzio?“
Mukwege dà tutto per il suo lavoro: sta per la maggior parte della sua giornata in sala operatoria, perché purtroppo le vittime sono numerosissime, tra donne e bambine; si impegna inoltre a soccorrere le sue pazienti anche da un punto di vista psicologico, affinché recuperino quella dignità di donne e di esseri umani che è stata così ingiustamente e crudelmente calpestata. Infatti è solo ricevendo un supporto concreto che queste donne riusciranno a sopportare il rientro in società e a chiedere giustizia per gli abusi subiti. Lo stesso carismatico medico, che oggi vive sotto scorta per il suo atteggiamento antigovernativo, ha più volte denunciato i carnefici di queste stragi.
“Nel mio Paese le donne, le ragazze, le bambine sono vittime di sistematiche violenze sessuali dalla ferocia indescrivibile. I loro organi sessuali vengono deturpati, mutilati, bruciati. E questo avviene quasi sempre in pubblico. Davanti agli occhi dei mariti e dei figli. Si tratta di forme di violenza efferata, usate dai gruppi armati come arma di guerra”.
Il chirurgo congolese insiste spesso su come lo stupro sia una vera e propria strategia di guerra e non solo un atto di violenta sottomissione: serve infatti a distruggere intere comunità, dal momento che i testimoni o le vittime di violenza spesso fuggono dai villaggi per vergogna. Per questo si impegna a supportare le donne anche psicologicamente: solo restituendo nuova dignità alle vittime ed impedendo loro di provare vergogna si può contrastare quest’orribile strategia.
Nonostante il conflitto civile in Congo sembri essere giunto a termine, c’è ancora molto lavoro da fare: la condizione di queste donne non è infatti migliorata perché, come dice lui stesso:
“Hanno la responsabilità dei figli che hanno avuto magari in seguito a una violenza sessuale, di cui non conoscono i padri e che vengono rifiutati dalla comunità. Inoltre gli stessi bambini, che hanno visto con i loro occhi gli stupri durante la guerra, crescendo riproducono quel modello, perché nessuno li ha educati a rispettare le donne.”
Nella sua autobiografia, L’ultima ragazza, pubblicata quest’anno da Mondadori, scrive:
“A un certo punto non restano altro che gli stupri. Diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio”.
Diventata ambasciatrice Onu, ha dichiarato in un’intervista al direttore della National Geographic:
“Come saprai, nella cultura mediorientale, non è facile parlare di stupro… ma non lo sto facendo solo per me o per i miei fratelli che sono stati uccisi assieme a mia madre e ai miei nipoti, lo faccio per l’intera comunità“.
Pur sopravvissuta miracolosamente ad una strage e aver ricevuto importantissimi riconoscimenti, il suo desiderio più grande rimane quello di ritornare nella sua terra, l’Iraq, e di vederla mutata.
Purtroppo non bastano due volti per far fronte a questa drammatica situazione: sono ancora numerosissime le vittime. Nonostante negli ultimi anni, grazie anche alla nascita del movimento Me Too, si sia registrata una sempre maggiore attenzione al tema delle violenze e degli abusi sul corpo femminile, questa riguarda quasi esclusivamentequei casi verificatisi nei Paesi altamente sviluppati, in cui le persone sono più sensibili a queste tematiche. Occorre, invece, considerare anche che al mondo ci sono Paesi in cui gli stupri vengono usati sistematicamente e brutalmente come una vera e propria arma da guerra per distruggere le vittime sia fisicamente sia psicologicamente: le violenze danneggiano gravemente la salute di coloro che sopravvivono, ma demoliscono anche del tutto la loro dignità.
Nadia Murad crede che la colpa più grande della comunità internazionale sia di non prendere una posizione nei confronti di questi fatti. Per ora Nadia ha ottenuto che l’Onu creasse un team investigativo per raccogliere le prove dei crimini dell’Isis; mentre gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno solo riconosciuto ufficialmente che questo genocidio è avvenuto. Tutto ciò secondo l’attivista irachena non è sufficiente: è l’unione che fa la forza, occorre dunque che tutti si uniscano veramente per fermare questa strage, difendendo la dignità delle donne vittime di violenza in guerra.
“Finché non ci uniamo veramente tutti insieme, non si farà nessuna differenza, non può farsi carico di combattere questa situazione solo un certo popolo o una certa etnia“.