In russo l’acronimo Gulag (indicato anche con “GULag”) indicava letteralmente la “Direzione principale dei campi di lavoro correttivi”, ovvero il sistema di campi di lavoro forzato vigente in URSS. La parola dunque non ha come referente un luogo singolo, ma l’intera amministrazione incaricata del sistema concentrazionario. Ideato da Lenin, il quale si era basato sul modello dei campi di prigionia risalenti all’epoca zarista, il Gulag fu il mezzo di repressione (ed eliminazione) utilizzato da Stalin dopo aver scalato tutti gli altri membri del partito, durante le cosiddette purghe contro criminali, prigionieri e oppositori politici.
Chi veniva detenuto in un campo di lavoro veniva chiamato con l’espressione “zeka”, ovvero un’abbreviazione del russo заключенный, che in italiano si può tradurre con “rinchiuso” o “incarcerato”. Seppur diversi dai campi di sterminio nazisti, molte erano le analogie. Le condizioni di vita all’interno erano estreme e milioni di detenuti, privati di qualsiasi diritto, andavano contro una morte pressoché certa.
Marcello Flores, professore di Storia all’Università di Siena, oltre che direttore del Master europeo in “Human Rights and Genocide Studies”, si è espresso così alla conferenza intitolata Raccontare il Gulag: da Solzenicyn a Šalamov:
«La parola Gulag richiama una delle più grandi vergogne del XX secolo. Si trattava di un sistema di lavoro forzato, consacrato da Stalin nel ’29, che diede un grande contributo alla crescita economica del Paese, ma non a quella sociale: i campi sovietici, anche se non erano stati concepiti per lo sterminio, erano luoghi all’interno dei quali la vita umana non aveva nessun valore».
Il sistema Gulag coinvolse milioni di persone per quasi cinquant’anni, divenendo una triste realtà in Unione Sovietica. Senza fare più ritorno, molti scrittori e personaggi illustri, oppositori ostili al regime, furono deportati nei campi come quelli lungo la Kolyma (il fiume che attraversa la Siberia). Fino all’arrivo del “disgelo politico”, che coincise con la morte di Stalin nel 1953, l’argomento era considerato un vero e proprio tabù: i pochi superstiti, la maggior parte riabilitati soltanto dopo la morte del leader, tacevano per paura, mentre i cittadini sovietici erano all’oscuro di quanto crudele fosse la vita nei campi, questo anche perché, in previsione dei fatidici piani quinquennali, la propaganda comunista tendeva piuttosto a esaltare i risultati ottenuti che ricordare le vite scomparse.
La situazione cambiò nel novembre 1962 quando Aleksandr Isaevič Solženicyn, futuro premio Nobel per la letteratura (1970), riuscì a pubblicare sulla rivista «Novyj Mir» Una giornata di Ivan Denisovič (Один день Ивана Денисовича). L’impatto che il romanzo ebbe, tanto in URSS quanto in Occidente, fu sconvolgente a tal punto che dovette intervenire Nikita Chruščëv in persona per poterlo pubblicare. La prima edizione andò letteralmente a ruba; fino a quel momento nessuno infatti aveva mai osato descrivere la dura vita riservata ai prigionieri nei campi di lavoro sovietici. Ciò che Solženicyn descrisse nel suo romanzo non è altro che una giornata qualsiasi fra le tante trascorse, oltre tremila, dal protagonista Ivan Denisovič Šuchov in Siberia, dove fu deportato per essere stato catturato dai nazisti durante il conflitto bellico. Ufficialmente era accusato di essere «colpevole di disfattismo».
Malato, Ivan Denisovič è costretto a lavorare con una temperatura inferiore ai ventisette gradi sotto lo zero, svegliandosi alle cinque di mattina e senza la possibilità di essere accolto in infermeria. Al termine della propria giornata Ivan Denisovič si ritiene comunque soddisfatto di essere sopravvissuto e di essere stato abbastanza produttivo da non venire fucilato; queste erano le umilianti condizioni di lavoro forzato in un Paese che faceva dei diritti dei lavoratori, della falce e del martello i propri simboli.
Per aver criticato Stalin in una lettera privata, Solženicyn aveva trascorso oltre dieci anni in Siberia: dal 1945 al 1953, anche se fu definitivamente liberato dall’esilio interno soltanto nel 1956. Egli aveva quindi visto l’orrore fin da troppo vicino e sapeva bene come descriverlo. In un primo momento Chruščëv appoggiò l’opera di Solženicyn, anche se in realtà ciò che interessava al nuovo leader sovietico erano testimonianze di impronta anti-staliniana per poter fare un distinguo: Stalin aveva intrapreso una strada, fatta di terrore e mistificazione della realtà, assai lontani dagli obiettivi originali del socialismo sovietico. Chruščëv non aveva dunque bisogno di un nemico del comunismo, bensì di un nemico di Stalin, in modo da poterlo screditare. La politica di Chruščëv creò non pochi problemi allo scrittore, fervente ortodosso, sempre più convinto che a presentare svariate aporie era l’intero sistema comunista, a partire dai suoi filosofi Marx ed Engels. Per questo motivo le successive opere di Solženicyn, fra cui il capolavoro Arcipelago Gulag, ebbero numerosi problemi con la censura e all’autore fu imposto nuovamente l’esilio nel febbraio 1974.
Un altro grande autore che si dedicò alla letteratura concentrazionaria fu Varlam Šalamov. Šalamov fu deportato nella Kolyma dal 1937 al 1953; fra i capi di accusa c’era anche quello di aver lodato uno scrittore borghese, e quindi sovversivo rispetto all’Unione Sovietica, come Ivan Bunin che aveva da poco vinto il premio Nobel (1933). Nella Kolyma lo scrittore si ammalò di tifo e visse in condizioni al limite tra la vita e la morte.
Una volta riabilitato dedicò il resto della sua vita alla monumentale raccolta de I racconti della Kolyma (Колымские рассказы, l’edizione integrale di oltre mille pagine è pubblicata in Italia da Einaudi) che completerà soltanto nel 1973. A differenza delle altre sue opere Šalamov non voleva considerare i suoi racconti come “oggetti d’arte”, tutt’altro. La volontà di urlare al resto del mondo la verità di quegli anni atroci fu per Šalamov la principale ragione di vita. Anni in cui a uno zeka veniva negato tutto ciò che l’umanità aveva raggiunto nel corso della Storia. Leggere I racconti della Kolyma può richiedere un grande sforzo; le fredde pagine di Šalamov descrivono i più disperati tentativi (persino episodi di cannibalismo) di sopravvivenza in Siberia senza porsi alcuna censura, dimostrando come «l’uomo non debba mai dimenticare di essere uomo».
I. Solgenitsin, Una giornata di Ivan Denissovic, Milano, Garzanti, 1970.
V. Šalamov, I racconti di Kolyma, a cura di I.Sirotinskaja, Torino, Einaudi, 1999.
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