Questo è il mio sangue è un saggio che anticipa senza riserve il suo contenuto dalla copertina: un assorbente interno su sfondo rosso la fa da padrone.
Élise Thiébaut (1962), giornalista e scrittrice francese, ci parla del “tabù numero uno” della storia: le mestruazioni.
Con ironia e semplicità, ma non senza precisione documentaria, l’autrice ripercorre vicissitudini, semplici curiosità e vere e proprie problematiche legate al ciclo mestruale attraverso argomentazioni storiche, antropologiche, scientifiche ma anche autobiografiche.
Sebbene, in alcune culture primitive, la prerogativa tutta femminile di sanguinare spontaneamente ogni mese sia stata vista perfino come un fenomeno divino e sinonimo di virtù – che gli uomini hanno tentato di emulare mediante rituali e incisioni – bisogna riconoscere, però, il maggior peso dello stigma portato dalle donne a causa dell’ignoranza e delle superstizioni che aleggiano sul tema. Nel saggio emerge quanto le religioni monoteiste abbiano giocato in tal senso un ruolo determinante, legando il sanguinamento mestruale al concetto di impurità; ma tali convinzioni sono costruite su retaggi culturali preesistenti: basti pensare al “progenitore dei medici”, Ippocrate, che sosteneva si perdesse circa mezzo litro di sangue durante il flusso (in realtà, in media circa 50 millilitri per ogni ciclo), o all’autore latino Plinio il Vecchio che, nella sua Naturalis Historia, attribuiva alle mestruazioni il potere di fare appassire i fiori, marcire i frutti e crepare le api. Ma non mancano superstizioni più recenti, come quella raccontata dall’autrice e diffusa negli anni Settanta, durante la sua adolescenza, per cui non sia possibile per una donna mestruata montare la maionese.
Benché queste bizzarre credenze non convincano più, il libro analizza come le mestruazioni restino fonte di dubbi, vergogna e disagi; ci esorta a riflettere sul senso di pudore anche nel pronunciare la semplice espressione «ho le mestruazioni», andando piuttosto alla ricerca di perifrasi, dalle più comuni «ho il ciclo», «ho le mie cose», fino alle improbabili visite di zie, marchesi e baroni rossi.
E ancora, a quale donna non è mai capitato di dover chiedere un assorbente a scuola, a lavoro o in qualsiasi altro contesto, cercando in tutti i modi di non farsi udire dai presenti? Al contrario, volgarità e offese vengono quotidianamente urlate senza esitazione.
Questo rapporto col proprio ciclo mestruale e la tendenza a non parlarne liberamente, come si farebbe di una qualsiasi altra funzione corporea, produce ignoranza e può condurre a gravi ripercussioni sull’autostima, la coscienza di sé, la vita sessuale e soprattutto sulla salute. Élise Thiébaut si sofferma a tal proposito su contraccezione, dolori mestruali, sindrome premestruale e, in particolar modo, sull’endometriosi, una malattia cronica – di cui lei stessa dichiara di aver sofferto – originata dalla presenza di tessuto endometriale (che riveste l’interno dell’utero) in altri organi circostanti come le ovaie, la vagina o l’intestino.
Molte donne, recentemente, hanno tentato in vari modi di scardinare questo tabù: l’autrice riporta nel testo, per esempio, l’episodio della musicista indo-americana Kiran Ghandi che, nell’aprile 2015, ha corso la maratona di Londra (42,195 chilometri) in quattro ore, quarantanove minuti e undici secondi. Di sorprendente c’è che Kiran quel giorno avesse le mestruazioni e avesse scelto di non indossare assorbenti o tamponi, sfoggiando al traguardo una consistente macchia di sangue sul cavallo della tuta, come testimoniano le fotografie postate sul web. Lo scopo dell’impresa era proprio denunciare la stigmatizzazione a cui sono soggette le donne a causa del ciclo.
Qualche giorno prima, guidata dallo stesso obiettivo, l’artista e poetessa Rupi Kaur aveva postato sul suo profilo Instagram una foto, scattata da sua sorella, che la ritraeva sdraiata nel letto, di spalle, con una macchia di sangue ben visibile sui pantaloni. Successivamente, l’artista ha dichiarato che si trattava di sangue finto e che la foto si inscriveva in un progetto del suo percorso di studi per l’Università di Toronto, proprio con l’obiettivo di suscitare imbarazzo e creare dibattito. Tuttavia, i provvedimenti presi dal sito di Instagram, che continuava a rimuovere la foto poiché «contraria alle regole» della piattaforma, fa riflettere sul senso di disagio e sul fattore di disturbo provocati da un processo così naturale.
Ma altre artiste, ancora prima, hanno lanciato provocazioni sul tema attraverso le loro opere. Qualche nome: Joana Vasconcelos, nel 2005, scandalizza alla Biennale di Venezia con un gigantesco lampadario fatto di tamponi mestruali, con il titolo A Noiva (La Sposa). E ancora, più tardi, Ingrid Goldbloom Bloch realizza un’arma fatta di applicatori di tamponi interni, coniugando alla provocazione un messaggio di antiviolenza, all’insegna dello slogan «protezione femminile», contro la libertà senza restrizioni di acquistare armi in America.
Quest’opera fornisce alla scrittrice un pretesto per un excursus sui sistemi di “protezione” femminile, quindi sull’utilizzo nei secoli di strumenti per la raccolta e l’assorbimento del sangue, partendo dal flusso libero nascoste nelle caverne per le donne primitive, fino ad arrivare a soluzioni più moderne, come la coppetta mestruale – di cui tutt’oggi troppe donne ignorano i vantaggi – o gli assorbenti biologici lavabili. A quest’analisi si coniuga la riflessione sull’oscurità in merito a tutte le componenti chimiche presenti negli assorbenti e nei tamponi comunemente usati, quali profumi, pesticidi, diossina e altre sostanze cancerogene, in grado di perturbare l’equilibrio vaginale ed endocrino. È nell’agosto 2015 che, finalmente, il laboratorio indipendente AnAlytikA pubblica uno studio condotto sulle marche più diffuse di tamponi, portando alla luce tra i venti e i trenta componenti chimici di cui non si fa menzione sulle confezioni. Insomma, di certo non una passeggiata di salute per il nostro organismo, considerato inoltre che queste soluzioni comportano costi ingenti sul lungo periodo e contribuiscono pericolosamente all’inquinamento ambientale.
Questo è il mio sangue costituisce, quindi, un compendio di nozioni, curiosità e spunti di riflessione a cui chiunque dovrebbe approcciarsi. La lettura si presenta fluida e piacevole come quella di un romanzo, ma allo stesso tempo smuove considerazioni necessarie su un aspetto così delicato, eppure condiviso dalla metà della popolazione mondiale.
Così, il saggio si chiude con un invito alla fondazione di una cooperativa transnazionale per la condivisione di informazioni, per l’esortazione a una ricerca prioritaria e consapevole e per «riabilitare il sangue mestruale creando le nostre regole».
É. Thiébaut, Questo è il mio sangue, Einaudi, 2018