Fin dalla sua nascita la settima arte ha messo in luce i problemi dell’umanità interrogandosi sul senso dell’esistenza e sulle dinamiche sociali che regolano la vita. Tematiche del genere non sono semplici da affrontare neanche per le scienze più evolute, eppure il cinema non è mancato all’appello, servendosi del materiale profilmico particolarmente adatto alla messa in scena di concetti altrimenti astratti.
Si pensi all’intolleranza religiosa, più nello specifico all’antisemitismo e all’olocausto, entrati a far parte dell’immaginario collettivo tramite celebri pellicole quali Schindler’s List (1933, Steven Spielberg), Il pianista (2002, Roman Polanski), La vita è bella (1997, Roberto Benigni): film che hanno emozionato gli spettatori facendo leva sulla loro empatia e sulla notorietà della terrificante strage.
Quale che sia la portata della tragedia maggiormente celebrata dal mondo civile, non bisogna ignorare che l’atteggiamento d’intolleranza verso le diversità etniche e culturali ha da sempre attraversato la nostra storia. Il cinema non ha ignorato i diversi atti di violenza compiuti in nome della supremazia razziale, talvolta denunciandoli e talvolta giustificandoli.
Il caso di David Wark Griffith è emblematico in tal senso: con due pellicole ha mostrato entrambi gli atteggiamenti di denuncia e giustificazione unendo la modalità rappresentativo-innovativa ad una narrazione suggestiva che invita lo spettatore alla riflessione.
Nel 1915 realizzò The birth of a nation, lungometraggio che rimandando alla guerra di Secessione americana, coglie l’occasione di giustificare la nascita del Ku Klux Klan in nome della superiorità dei bianchi sui neri, che in quegli anni stavano ottenendo le prime conquiste civili.
L’ambizioso progetto si ritorse contro il regista, accusato di razzismo dagli attivisti afroamericani, a cui lui rispose appellandosi alla libertà d’espressione.
L’anno successivo Griffith si lanciò alla realizzazione di una nuova pellicola, Intolerance, il cui titolo rimanda alla vicenda narrata: quattro storie di intolleranza vengono magistralmente presentate con lo scopo di denunciare stragi e violenze insensate.
Il caso Griffith, seppur cronologicamente lontano dalla nostra realtà, non fa che dimostrare quanto il cinema non sia un’arte fine a se stessa, le cui intenzioni devono essere attentamente codificate, per non cedere ai pericolosi condizionamenti di registi spesso ambigui.