Quando ero piccola, chiedevo a mia nonna, a mia madre o a mia cugina di raccontarmi una storia. Questa richiesta si ripeteva più volte al giorno in maniera quasi ossessiva, e alla fine sia la prima, sia la seconda che l’ultima sbottavano: «C’era una volta un re, seduto sul sofà, che disse alla sua serva: ”Raccontami una storia!”, e quella incominciò:». Seguiva la litania infinita e monotona, accentata sull’ultima parola di ogni porzione di frase, come una filastrocca. Da quell’irritazione che mi prendeva, da bambina, al rifiuto di una piccola storia nasce questo racconto. Comincia così:
C’era una volta una regina, che governava l’Africa intera. Aveva al suo seguito dieci consiglieri che guidavano venti marescialli, uno per ogni regione del regno. Questi dieci marescialli, a loro volta, controllavano l’operato di quaranta funzionari (uno per ogni provincia), i quali coordinavano l’azione di ottanta burocrati disseminati in ogni frazione o villaggio. Tutto questo impianto aveva un’unica logica conseguenza: alla regina non rimaneva nulla da fare, se non annegare nel lusso sfrenato del suo palazzo ed essere trascinata dalle sue vicissitudini sentimentali. Aveva infatti una moglie e un marito, tre amanti e dieci cortigiani per i suoi sollazzi. Tuttavia, per ovvie ragioni fisiologiche, non riusciva a dedicarsi all’Ars amatoria per tutto il giorno. Era pur sempre una sola. Dunque capitavano spesso pigri pomeriggi, in cui alla suddetta regina altro non restava che languire annoiata su una delle tante poltrone rivestite di velluto blu della sua dimora. Non sapeva leggere, né scrivere, nemmeno far di conto. A che serviva, dopotutto, con tutti gli amministratori alle sue dipendenze? Facevano bene il loro lavoro, e una placida pace regnava armoniosa su tutte le sue terre. Che fare, dunque?
Accosciata sulla moltitudine delle sue vesti, la regina tirò fuori dal taschino la campanella che utilizzava per chiamare il suo valletto personale. Dopo aver tintinnato tre volte, questo comparve sulla soglia del salone con il capo abbassato in segno di riverenza. Il valletto era un uomo davvero brutto a vedersi: aveva un volto pieno di rughe pur non avendo superato i trent’anni, il capo completamente glabro. Due occhietti porcini faticavano a spalancarsi dietro un paio di folte sopracciglia unite. Il naso, poi, era un’opera di arte moderna: sembrava che qualcuno gli avesse picchiato sull’osso con un martello, e poi avesse tentato di strapparglielo. Tutto rosso e sbilenco, con un porro gigante sul dorso. Nonostante questi difetti fisici, il valletto era il servo prediletto della regina, la quale, imperiosamente, gli ordinò: «Ebbene? Raccontami una storia!». E quello incominciò:
C’era una volta, in una terra lontanissima, oltre le dure montagne innevate, oltre il gelido Mare del Nord, una valle chiusa da una moltitudine di colline ghiacciate. Proprio in questa valle, c’erano due villaggi, uno sul versante nord-orientale e l’altro sul versante sud-occidentale. Il primo villaggio, quello a sudovest, portava l’altisonante nome di Staðreyndin, mentre l’altro si chiamava Bókmenntir. Per quanto fossero vicini, erano due villaggi molto diversi: se a Staðreyndin i colori delle case erano le più disparate tonalità di marrone e di grigio, a Bókmenntir invece ogni mattone era di un colore diverso. A Staðreyndin la popolazione era operosa, organizzata ed efficiente, mentre a Bókmenntir non si era lavorato neppure un giorno, e gli abitanti del villaggio rivale sovente si domandavano come diavolo facessero a campare senza coltivare il grano e allevare il bestiame. Infatti, nonostante a Bókmenntir non si lavorasse mai, non vi era mai stata una spedizione di saccheggio nell’altro villaggio, per l’approvvigionamento delle risorse.
Benché dal punto di vista formale i rapporti tra i due paesi fossero cordiali, in realtà gli abitanti di Staðreyndin invidiavano la nullafacenza di quelli di Bókmenntir, mentre quelli di Bókmenntir rimpiangevano di non poter mai uscire dal proprio villaggio, come invece potevano fare le genti di Staðreyndin. Infatti, un’antica legge emanata dal dio che tutto ha creato e tutto può distruggere, decretava che se un nativo di Bókmenntir avesse osato oltrepassare le due spesse corde di muraglie che circondavano il luogo, sarebbe svanito all’istante, come se non fosse mai esistito. I vicini di Staðreyndin, invece, potevano entrare e uscire a proprio piacimento da Bókmenntir, però, se portavano con loro cibo, denaro o oggetti da quel luogo, una volta varcate le muraglie tutto era bello che sparito.
Nel villaggio di Staðreyndin viveva un giovanotto di bell’aspetto, di nome Höfundur, il quale, tutte le mattine, si recava a Bókmenntir per prendersi cura di sua madre Lesandi. Ella, infatti, dopo un periodo di villeggiatura a Bókmenntir, aveva deciso di stabilirsi lì in maniera permanente, essendosi innamorata sia del posto, con la sua moltitudine di colori e suoni, sia delle persone, bizzarre e divertenti. Höfundur non doveva accudirla in senso stretto, ma doveva assicurarsi che la vecchia Lesandi avesse tutto l’occorrente per vivere dignitosamente: si occupava di procurarle il cibo e il vestiario, e qualche libro per alleviare la noia. Un giorno, quando arrivò nel piccolo cottage in cui viveva Lesandi, scoprì che l’anziana donna non era sola. Un giovane fanciullo sedeva al pianoforte, che lui non ricordava ci fosse soltanto il giorno prima. Alla sua prevedibile perplessità, la madre gli rispose che il fanciullo era il suo signorotto di compagnia: le leggeva i libri e le cantava canzoni, in modo che lei avesse sempre qualcosa con cui sollazzarsi.
Nonostante Höfundur fosse abituato alle stranezze e bizzarie che di continuo capitavano a Bókmenntir, quest’ultima nuova gli parve assai più anomala di tutte le altre che aveva visto o sentito. Così, si avvicinò al giovane seduto davanti al pianoforte, e con voce imperiosa gli disse: «Ehi, voi. Ditemi subito chi siete, o giuraddio che vi faccio saltare le cervella portandovi fuori immediatamente da Bókmenntir». L’altro subito si riscosse e, scattando in piedi, gli rispose, con voce lamentosa: «Carità signor Höfundur, carità per un povero fanciullo! Il mio nome è Eðli, e giuro su quanto ho di più caro al mondo che non ho cattive intenzioni! Figlio di menestrelli, prima della piazza ho voluto mettere alla prova le mie abilità con la vostra adorabile mammina». Gettandosi ai suoi piedi, si profondeva in mille giustificazioni, strusciando il suo lungo naso sul pavimento impolverato. Höfundur, spazientito, gli disse che, come prova delle sue buone intenzioni, avrebbe subito dovuto raccontare una storia, e non una storia qualunque, ma la più avventurosa di tutte, veriddio che, altrimenti, lo avrebbe buttato giù dalle muraglie di Bókmenntir quella sera stessa! Allora quello, asciugandosi le lacrime e, di colpo, assumendo un cipiglio malizioso, si schiarì la gola e incominciò:
C’era una volta, nelle lontanissime acque giapponesi, una nave di pirati che terrorizzava tutte le coste circostanti. La capitana del vascello, una certa Kuroi Ai, era la più temibile di essi. Infatti, i pochi marinai o ufficiali che riuscivano a scampare alla morte dopo che il suo equipaggio aveva preso possesso della loro imbarcazione, tornati sulla terraferma, raccontavano imprese agghiaccianti: la capitana Kuroi non avrebbe infatti mai mostrato pietà per alcuno dei suoi nemici. Era solita spogliare il malcapitato di turno finché non fosse completamente nudo davanti al suo equipaggio; poi, dopo avergli tosato la testa per umiliarlo, accompagnata dalle risa di tutti gli altri pirati, gli torceva ogni dito delle mani e dei piedi, gli staccava ogni dente con una pinza utilizzata per aggiustare gli ingranaggi del forno di bordo e infine lo sventrava, come un pesce appena pescato. Il corpo veniva dunque cosparso di sale, ed esposto sul ponte del vascello per essere il lauto pasto di gabbiani e altri uccelli marini.
Tutte queste informazioni avevano profondamente terrorizzato tutte le province del Giappone. I più vili tra i marinai si rifiutavano di partire, mentre invece i più audaci e sciocchi si imbarcavano senza timore, per non fare più ritorno. In pochi anni, la situazione portò a una sensibile diminuzione del numero di marinai e ufficiali della marina, con gravissime ripercussioni sul circuito economico del paese. L’imperatore, Hoshi No Kuroi Hikari, capì dunque di aver bisogno dell’aiuto militare del paese vicino, la sterminata e potentissima Cina. Così, per proporre l’alleanza, decise di inviare la sua giovanissima figlia, Junsuina Ai, in sposa al figlio dell’imperatore cinese, Xiǎohuǒzi. Per quanto la fanciulla piangesse e lo pregasse di salvarla da quella missione di esito sicuramente disastroso, l’imperatore Hikari non volle sentire ragioni: sarebbe partita, costasse quel che costasse.
«Ma questa non è una storia avventurosa! È una tragedia!» protestò Höfundur, con gli occhi lucidi. Eðli, inaspettatamente, gli strizzò l’occhio, e lo esortò con un breve gesto a lasciarlo proseguire.
Tuttavia, benché inflessibile, l’imperatore Hikari certo non era uno sprovveduto. Decise così di distrarre la nave pirata predisponendo che la principessina partisse all’interno di un veliero malmesso, con ufficiali e soldati di scorta travestiti da mendicanti: la pirata infatti non avrebbe mai voluto procacciarsi una preda così macilenta, non quando, alla stessa ora e lo stesso giorno, sarebbe partito dalla terraferma un vascello col sigillo imperiale guarnito d’oro e d’argento, con un equipaggio pulito e profumato, il che lasciava presagire un succosissimo carico di tesori. Rassicurando la figlia, così, la lasciò partire sull’imbarcazione che pareva cadere a pezzi. Ma, come spesso accade, l’imperatore non aveva fatto i conti con la sagacia della capitana Kuroi, che grazie a spie era riuscita a scoprire tutto l’inganno. Dunque, per non farsi scappare né la principessa, né il carico della nave dorata, decise di dividere a metà il suo equipaggio: lei sarebbe andata con pochi uomini fidati a rapire Junsuina Ai, mentre gli altri uomini avrebbero depredato il vascello imperiale.
Ma la fanciulla non poteva fare altro se non piangere, cercando di fare meno rumore possibile. Dopo aver girato avanti e indietro per il ponte per una, due, quattro volte, la capitana Kuroi tornò da lei e disse: «Sento che se ti uccidessi ora, qualcosa dentro di me potrebbe spezzarsi. Dunque voglio concederti una e una sola possibilità di salvarti. I miei marinai e io, come sai, siamo il terrore di tutti i mari del mondo. Può sembrare che abbiamo la vita più avventurosa che possa mai esistere. Invece, non è così. Ci sono molti spazi vuoti, nella vita di bordo. Quando il mare è piatto come una tavola o quando dobbiamo aspettare che gli operai facciano le riparazioni sulla terraferma, per esempio. In questi momenti, sia io sia i miei compagni sprofondiamo nella noia più nera. Talvolta i miei scuoiano un mozzo come un cane, così, tanto per fare qualcosa, e a nulla serve rimproverarli o mandarli a letto senza rancio. Se mi racconterai una bella storia, con la quale io possa distrarli in questi momenti privi di avventura, allora avrai salva la vita».
La principessa Junsuina fissò la capitana per un breve momento, poi annuì. Anche lei, ora che la pirata le aveva parlato, sentiva la bocca secca e uno strano calore premerle all’apice delle gambe. Si accorse che, mentre la donna la fissava, ogni traccia di paura era scomparsa in lei, rimpiazzata da un tremore molto più sconcertante. Senza però farselo dire due volte, fissò la capitana Kuroi con determinazione, e cominciò:
«Fermo qui, servo! Si è fatto tardi, e la tua regina ha fame. Fa’ portare qui subito della frutta fresca e del vino. Quando avrai sistemato il vassoio sulle mie gambe, potrai continuare» intimò la regina al suo valletto. Quest’ultimo predispose tutto come gli era stato chiesto: fece portare un vassoio d’argento indiano colmo di pesche, uva e meloni tagliati; versò dalle once della cantina il vino più pregiato delle valli italiane nella ciotola di porcellana cinese più elaborata e preziosa del palazzo. Dopo aver predisposto tutto, la regina finalmente poté rifocillarsi. Ella gli lanciò una breve occhiata scocciata, segno inequivocabile di continuare a raccontare.
C’era una volta, prima che il dio che tutto ha creato e tutto può distruggere generasse il nostro mondo con le sue mani, nell’universo intero soltanto una stella. Come tutte le stelle, essa era fatta di fuoco incandescente, e tutta la sua superficie era popolata da una miriade di piccoli villaggi. La pace regnava sovrana su di loro grazie all’imperatore che governava l’intera stella; il suo nome era Malik Alnaar. Nonostante dopo La Conquista avesse stabilito la concordia tra villaggi in precedenza constantemente in lotta tra loro, il re non era un uomo buono: viziato dal benessere, mandava a morte i suoi consiglieri se gli venivano a noia, sgozzava i suoi amanti se si stancavano delle sue carezze e strozzava le sue mogli se non concepivano figli entro il primo anno dal matrimonio. La nomea delle sue dissolutezze era ben diffusa tra i suoi sudditi, che quindi evitavano di procurargli qualunque fastidio per avere salva la vita. Dunque non chiedevano mai, tramite sommosse o rivolte, di avere tasse più basse, né pretendevano per sé maggiori possibilità di mobilità sociale o ricchezze.
Questa situazione faceva sì che tutti i villaggi della stella soffrissero indicibilmente la povertà. Anche quelli che nascevano in prossimità dei fiumi di lava non se la passavano bene, poiché non avevano abbastanza denaro per aggiornare le tecniche di coltivazione e di allevamento del bestiame. Il villaggio più povero, sperso tra le montagne infuocate, era certamente quello di Jue. Qui viveva una bella fanciulla, che, al contrario dei suoi compaesani, era molto coraggiosa. Si raccontava, infatti, che a mani nude avesse sconfitto tre tigri di ceneri, e che avesse sollevato da sola un’intera montagna incandescente. Il nome della giovane era Dhaka’, e oltre all’audacia poteva vantare uno spiccato e impietoso senso della giustizia. Vedendo dunque la sua famiglia nella povertà più assoluta, incapace perfino di procurarsi delle buone vesti di magma, e sapendo che quelle erano le stesse condizioni in cui versava l’intera popolazione del re Malik, decise di risolvere la faccenda partendo per incontrare il re, e chiedergli dunque migliori condizioni di vita per i suoi sudditi.
«Aspetta, principessa. Voi, luridi ubriaconi, che aspettate? Slegatela dall’albero e datele vestiti puliti. La poltrona del mio studio, portatela subito qui. Sarà sufficientemente comoda per lei» comandò la capitana Kuroi. Per quanto la riguardava, la principessa Junsuina aveva già salva la vita. Non solo: non avrebbe mai permesso che sposasse un pigro e molle rampollo di palazzo; l’avrebbe tenuta con sé per sempre, a solcare tutti i mari della terra. I marinai fecero quanto ordinato, e predisposero la poltrona della capitana sulla prua, da dove si godeva ormai della splendida vista dell’alba. Junsuina le sorrise, e le permise di aiutarla a cambiarsi. Dopo essersi accomodata sulla dura poltrona, la principessa continuò:
Una volta al cospetto del re, Dhaka’ gli espose le sue ragioni: l’economia non girava da tempo, e la popolazione versava in uno stato di indigenza assoluta. La rendita dei campi di scintille e degli allevamenti non era sufficiente per pagare le tasse. Bisognava fare qualcosa, a meno che il re non volesse governare su una stella completamente disabitata. Il Re Malik, sconvolto per la sua impudenza, si alzò in piedi per ucciderla all’istante. Poi, però, mentre infilava la mano nella tasca del panciotto per estrarre il coltello, cambiò idea: quella sfrontatezza era di certo una cosa stranissima, mai vista durante il suo regno. Perché non cogliere l’occasione di allontanare per un po’ la noia che lo trafiggeva? Neppure uccidere lo soddisfava più. Infatti, la morte accade sempre uguale: un urlo muto di angoscia, il terrore negli occhi; poi, la pace. Una cosa monotona, insomma.
Re Malik prese nuovamente posto sul trono, e disse alla giovane Dhaka’: «Se davvero vuoi salvare la tua gente dall’estinzione, dovrai raccontarmi una storia che non finisce mai, affinché io possa scacciare per sempre la noia. Se porterai a termine quest’impresa, avrai salva la vita, tu e tutta la tua gente. Ma, se la tua storia dovesse finire, allora davvero governerò, solo, su una stella vuota!». La fanciulla ci pensò un po’, e poi rispose: «Ma se la storia non finisce mai, come potrai dare l’ordine di abbassare le tasse se sei impegnato ad ascoltarmi?». Re Malik disse che aveva ragione, quindi fece chiamare i funzionari di palazzo e ordinò loro di abbassare le tasse, aprire i tesori regali e distribuirne la decima parte in tutti i villaggi della stella. «Se la tua storia finirà» disse alla giovane, «riprenderò tutto il mio oro, e farò decapitare tutti i miei sudditi.» Dhaka’, rassicurata da quelle disposizioni, accettò la proposta. Poi, sorridendo maliziosa, cominciò:
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