Se c’è un’opera che non finirà mai di far discutere imponenti masse di studiosi e di lettori è proprio l’Orlando furioso, di Ludovico Ariosto. La motivazione del fascino che questo poema esercita sui lettori di tutte le epoche non è inerente soltanto alla stratificazione dei significati e alla ricercatezza stilistica, e nemmeno ai recentissimi tentativi di applicare al poema ariostesco le più recenti teorie narratologiche; è corretto affermare, invece, che la ragione principale per cui il Furioso si impone ancora oggi nel dibattito letterario è la sua sconcertante attualità. Forse proprio perché tra le righe si avverte tutta l’inquietudine che sempre scaturisce nelle epoche di grossi e devastanti cambiamenti, o nei periodi di transizione. Più probabilmente perché, oggi come nel lontano Cinquecento, i vecchi valori si incrinano e si spezzano e, sotto la coltre di confusione e disorientamento, si affaccia prepotente il nuovo, l’innovazione.
Dunque, una delle più importanti e discusse problematiche di tutti i tempi, che si prolunga ancora oggi a causa dei violenti meccanismi in certa misura sinergici di azione e reazione, viene trattata in maniera sistematica anche in questo poema: e cioè la «questione femminile». Di questione ancora oggi, purtroppo, si parla: nonostante l’emancipazione femminile si sia realizzata in molti paesi dal punto di vista legislativo, la cultura occidentale è ancora intrisa di misoginia e machismo.
Se dunque da un lato la necessità è quella di imparare a concepire le donne in quanto persone libere e autonome, non soltanto nella ‘vita reale’, ma anche nelle rappresentazioni artistiche e filmiche, dall’altro si impone come ancora più urgente la necessità di rompere definitivamente con il passato e i suoi tentativi di ritornare in auge: in questo senso, la sfida delle nuove generazioni è quella di accettare il contenuto marcatamente misogino della loro tradizione culturale e di porvi rimedio nell’atto di affrontare le sfide che pone il futuro. In particolare, c’è un elemento che alimenta il dibattito dei nostri giorni: e cioè la lacerante discrepanza tra un desiderio maschile ancora percepito come onnipotente e un desiderio femminile rappresentato come scandaloso e, a giudicare dai fatti di cronaca, ancora impossibile da accettare in tutte le sue declinazioni.
Come già accennato, anche nell’epoca di Ariosto si poneva una problematica molto simile. Il Cinquecento si apre infatti come periodo di crisi dei valori umanistici e, per quel che ci interessa, della rappresentazione stilnovistica e cortese del femminile. Nel Medioevo la figura della donna era centrale nelle espressioni letterarie nella forma di donna-angelo, la cui funzione primaria era quella di permettere l’elevazione spirituale del poeta; ciò presupponeva l’esistenza di un preciso pubblico di riferimento, esclusivamente maschile. Ella era dunque ridotta a mero strumento poetico ed era priva di qualunque spessore umano, poiché la sua sfera di autonomia si esauriva proprio nell’esercizio della sua funzione di mezzo per l’ascesa dell’anima.
Ariosto, continuando l’opera bruscamente interrotta del Boiardo, mette invece la donna al centro della sfera di azione. Nella moltitudine di storie e di intrecci sapientemente intessuti dal narratore, le figure femminili che emergono sono tante, solide e scolpite in maniera realistica e a tutto tondo, a partire dalla fredda Angelica. E ciò è sintomo di un importante cambiamento di paradigma, e cioè che il pubblico per il quale Ariosto scrive non è più una stretta cerchia maschile: al contrario, il poeta si rivolge a una corte, ugualmente ripartita tra uomini e donne. E così, le signore della corte, tra cui possiamo citare alcune conoscenze di Ariosto stesso, come Isabella D’Este e Lucrezia Borgia, avevano bisogno di una letteratura aperta, in cui potersi specchiare e riconoscersi.
Nel poema Ariosto più volte affronta la tematica, che non riguardava solo il piano del dibattito letterario, ma anche quello sociale e culturale: la questione femminile era infatti molto sentita nel primo Cinquecento, e sono numerosi gli autori che la trattano nelle loro opere (primo tra tutti Castiglione, con il suo Libro del Cortegiano). Per quanto concerne il nostro poeta ferrarese, il suo modo di rapportarsi al problema è iscritto nel segno dell’ambivalenza. Il Furioso, infatti, in tutta la sua varietà tematica e stilistica, è l’opera da cui è impossibile ricavare giudizi certi o sintesi che producano un equilibrio stabile: ogni aspetto della vita umana è indagato da differenti punti di vista e così anche l’atteggiamento nei confronti delle donne. Si passa dagli elogi ostentati e appassionati, alle deprecazioni sulla volubilità femminile, per poi, subito dopo, rivendicare il diritto delle donne di scegliere in maniera autonoma.
Si tratta di una vera e propria oscillazione continua, senza alcun andamento progressivo, che non giunge mai a una soluzione definitiva. Vale la chiave di lettura che domina l’intero poema, e cioè che bisogna valutare ogni caso specifico, abolendo norme troppo severe e rigide per una forma mentis flessibile che tenga conto della mutevolezza del reale e delle sue forme. Ma la coesistenza tra una spiccata tendenza misogina e una di direzione contraria può anche essere interpretata come sintomo di una profonda metamorfosi in atto, in cui l’innovazione deve convivere con gli strascichi della tradizione con cui si cerca di rompere.
Ci sono alcune figure che, più di altre, incarnano questo cambiamento di prospettiva: per esempio il personaggio di Bradamante. Ella, oltre ad avere la funzione di sviluppare il motivo encomiastico (infatti è la sposa designata di Ruggiero, progenitore della famiglia estense), è un personaggio di elevato spessore: calcata dallo stereotipo della donna guerriera, Bradamante si impone sulla scena non soltanto in quanto cavaliere leale e coraggiosa, ma anche come donna profondamente innamorata del suo promesso, non esente da scatti di gelosia folle. La si vede numerose volte nell’atto di salvare Ruggiero, nei tentativi di inseguirlo e di riportarlo sulla retta via. In questo senso si attua un capovolgimento totale dello stereotipo cavalleresco che vede l’uomo nelle vesti di paladino indomito e la donna in quelle di una principessa che può solo attendere di essere salvata.
Anche l’esempio di Angelica è in larga misura eloquente, già a partire dal nome stesso, che richiama proprio l’ideale di donna-angelo tanto caro agli stilnovisti. Così, se apparentemente l’Angelica ariostesca è una prosecuzione di quell’ideale, e ciò viene confermato dalla mole di cavalieri innamorati di lei, lo stravolgimento di paradigma è evidente nel suo comportamento: ella infatti disprezza tutti i suoi spasimanti e, soprattutto, considera il suo statuto di oggetto del desiderio come un fastidio, che soltanto raramente può essere utilizzato a proprio vantaggio (per esempio quando decide di ‘servirsi’ dei suoi amanti come scorta per viaggiare in modo sicuro).
Dunque i rapporti di potere di matrice cavalleresca, come già mostrava il caso di Bradamante, anche qui appaiono completamente ribaltati. Ciò è visibile anche analizzando l’opera da un punto di vista strettamente formale: infatti l’azione narrativa e il punto esatto in cui Ariosto decide di riprendere la narrazione interrotta di Boiardo non è certo scelto a caso, né è il più prevedibile: il poeta ferrarese sceglie di riallacciarsi alla fuga di Angelica nel bosco, che innesterà tutti i successivi sviluppi. Quindi non è più l’azione di un personaggio maschile a farsi motore della storia, ma quella di una donna, al cui fascino quasi tutti i cavalieri cedono.
Angelica però non è solamente mera funzione narrativa, o un semplice oggetto del desiderio (che, per quanto sia capace di rinfocolare le reazioni altrui, sempre oggetto rimane). Ella infatti si pone anche in qualità di soggetto amante proprio nel momento in cui si innamora di Medoro e lo preferisce a tutta la schiera di paladini prestigiosi che la inseguono vanamente. Ed è proprio questa scelta a rovesciare tutto l’assioma tradizionale: Angelica predilige un semplice fante e nel farlo attua una vera e propria ribellione rispetto al paradigma dato.
Forse è proprio questa ribellione inaudita a fare sì che l’atteggiamento del narratore verso di lei sia impietoso. Infatti, fin dall’incontro della fanciulla con Medoro ferito, il narratore ariostesco attua un procedimento di degradazione comica che tocca punte di sarcasmo e di cattiveria evidenti. Non a caso, l’ultima volta in cui compare nel poema, Angelica finisce gambe all’aria, investita dalla furia animalesca di Orlando. Una sorte che sembra la giusta punizione per tutti i rifiuti dati.
Un altro esempio dell’ambivalenza dell’approccio ariostesco alla questione femminile è quello della storia di Ginevra, salvata dal baldo Rinaldo nel canto IV. L’episodio, in realtà, si presenta anche come fase iniziale della riflessione ariostesca sul tema e, più nello specifico, sul diritto delle donne, ora rivendicato e ora severamente punito, di essere soggetti desideranti in completa autonomia.
La storia in sé è piuttosto semplice: Rinaldo, giunto in Scozia, arriva nei pressi di un monastero e si informa presso i frati se vi sia qualche impresa degna di valore in cui possa cimentarsi. I monaci gli rispondono che può offrirsi come campione della principessa Ginevra, accusata da Lurcanio di adulterio ai danni dell’amico Ariodante. A quel punto Rinaldo pronuncia un lungo discorso in difesa dell’autodeterminazione delle donne e del loro diritto di desiderare, invocando una nuova legge che stabilisca pari opportunità per i due sessi.
Tuttavia, poco dopo questa dichiarazione, Rinaldo incontra la vera autrice, per quanto inconsapevole, delle sventure di Ginevra, l’ingenua serva Dalinda. Ella era stata sedotta da Polinesso, che aveva ordito un gigantesco equivoco per vendicarsi della principessa, poiché aveva avuto l’ardire di rifiutare le sue attenzioni. Quando poi l’inganno si scioglie e il suo malvagio orditore viene sconfitto, a Dalinda, la donna che ha avuto l’audacia di desiderare un uomo e, proprio per questo, inconsapevolmente aveva provocato la disgrazia della propria padrona, viene riservata una punizione ingiustificata: ella infatti si rinchiude in un monastero, senza più poter comunicare con l’esterno e, dunque, senza più il diritto di desiderare per se stessa.
Il caso forse più esemplificativo, però, è quello che si trova al canto XXVII, cioè la storia di Fiammetta. Essa, infatti, ripercorre tutti contenuti centrali della riflessione attorno al problema e si pone anche come perfetta sintesi dell’ambivalenza dell’atteggiamento ariostesco: da un lato la forte tentazione di cedere all’ottusa condanna di un intero genere, mossa dall’amara delusione amorosa, dall’altro il rifiuto categorico di una legge, culturale e sociale, che discrimina il desiderio femminile da quello maschile identificandolo in quanto alterità illecita.
La storia è quella di Astolfo e Iocondo: entrambi traditi dalle loro mogli decidono di andare in giro per il mondo a provare la fedeltà delle donne per i loro mariti. Infatti i due fratelli sono convinti che la natura delle donne sia infedele. Dopo qualche tempo, però, decidono di servirsi di un’unica donna, Fiammetta, per appagare le loro voglie sessuali. Entrambi credono di essere al sicuro da ulteriori tradimenti, poiché la ragazza deve rispondere ai desideri di tutti e due, e dunque la sua naturale tendenza all’infedeltà sarebbe soddisfatta. Però anche qui l’illusione dei fratelli viene infranta dalla realtà dei fatti: Fiammetta si innamora di un giovane, e non esita a tradire Astolfo e Iocondo.
Costruito a partire dal Decameron boccaccesco e dalle Mille e una notte, questo racconto può essere variamente interpretato: infatti può essere utilizzato come ulteriore prova della lascivia colpevole delle donne e della loro natura fedifraga e incostante; ma, al contrario, può anche essere interpretato, alla luce del contesto in cui si colloca, come un altro atto di ribellione che vuole riaffermare un semplice assunto, e cioè che una donna (Fiammetta) può decidere in modo autonomo, senza per forza sottostare alle costruzioni che gli uomini (i fratelli Astolfo e Iocondo) hanno edificato per lei.
Infatti, tale novella è innestata all’interno di un poema che, come già accennato, pone come assunto fondamentale l’estremo poliformismo della vita, in cui ogni illusione si presta a essere infranta e ogni codice di valori dimostra la propria infondatezza. Nonostante da un lato gli elementi tradizionali siano presenti in maniera significativa e capaci di condizionare i comportamenti dei personaggi, dall’altro quegli stessi canoni culturali rivelano sempre più la loro tragica inadeguatezza, soprattutto in rapporto alle donne.
Nella pratica, sia il narratore che i paladini (siano essi Orlando e Rinaldo, oppure i nobili Astolfo e Iocondo) rimangono sconcertati quando una donna come Angelica o Fiammetta ha l’audacia di innamorarsi di un uomo considerato inferiore – Medoro, infatti, è un semplicissimo fante, mentre l’amante di Fiammetta un povero garzone. Il loro codice erotico, quello che hanno costruito attraverso leggi culturali e sociali anche non scritte, coinvolge sia la parte maschile che femminile, eppure è costruito sulla base dei soli desideri maschili e sulle loro idee – cioè su ciò che gli uomini pensano che il mondo sia e sulla sostanza che costoro presumono abbiano gli individui che lo abitano.
Così, se per esempio nella mente degli uomini le donne dovrebbero amare un cavaliere prestigioso e nobile, nella realtà dei fatti il desiderio femminile non segue i percorsi che gli uomini hanno prestabilito per loro. Ecco così che ogni illusione si rompe e Angelica decide di sposare il suo Medoro; Fiammetta, invece, di tradire i nobili fratelli per un semplice garzone. Nonostante in tutto il poema siano vari i tentativi di togliere alle donne la libertà di autodeterminarsi, la ribellione che esse attuano è proprio quella di rivendicare per se stesse il diritto di essere soggetti del desiderio – non soltanto oggetti da possedere, a prescindere da quanto il desiderio di possesso sia nutrito da un puro sentimento amoroso.
L’altra fondamentale ribellione attuata dalle donne ariostesche è quella di sottrarsi al codice di valori e di ideali impostato dagli uomini ogni volta in cui hanno la possibilità di scegliere. Dunque la follia che pervade Orlando davanti al rifiuto della donna che ama non è una responsabilità di Angelica o dell’intero genere femminile, ma un mero errore di valutazione. L’errore è proprio quello di proiettare sulle donne ciò che gli uomini desiderano per se stessi, esattamente perché autori e protagonisti del codice culturale della cavalleria e della cortesia.
In questo senso le donne si fanno portatrici di un desiderio altro, non culturalmente o socialmente costruito, ma spontaneo perché rifiuta di modellarsi attorno ai paradigmi maschili. Rivendicare il diritto a desiderare di essere nei propri termini, senza adeguarsi alle normative dettate dall’esterno è quanto, in realtà, accade ancora oggi. Si assiste al dramma straziante in cui i novelli Orlando, ”impazziti” a causa del loro imperdonabile errore di valutazione, macchiano le proprie mani di sangue perché sono incapaci di accettare che una donna è una persona e, in quanto tale, è libera di volere per se stessa qualcosa di diverso, alle proprie indiscutibili condizioni. E, dall’altro canto, quello in cui i paradigmi del passato perdono la loro ragione d’essere, poiché sono incapaci di esprimere la sostanza del desiderio umano e i percorsi in cui esso si articola.
FONTI
L. Ariosto, Orlando furioso, a cura di E. Bigi, Rizzoli, 2012
Il destabilizzante femminile nei poemi di primo Cinquecento
Un commento su “La querelle des femmes nell’Orlando furioso”