La diade 1997-98 fu rivoluzionaria per la dance music. Negli Stati Uniti si andavano affermando con insistenza la house da discoteca, la techno dei rave, il Chicago-sound e la Detroit-wave, sino agli sperimentalismi underground di New York. Un clima musicale ancor più fervido vigeva oltreoceano, in primis nelle città elette a capitali del genere: Londra e Berlino. In quest’ultima la techno viveva una stagione di innovazione e stordimento droghereccio, che pareva non avrebbe mai avuto fine; la prima fu stendardo dell’avvento di diverse sottocorrenti artistiche, a partire dalla drum ‘n’ bass sino ad arrivare alla IDM, passando per l’ineguagliabile big beat.
Era il 1994 quando uscì Music for the Jilted Generation: i leggendari Prodigy avevano trovato la formula perfetta per raccontare la generazione che stava affrontando l’ultima decade del millennio. Gli anni novanta furono una fucina musicale, a volte scadendo nel trash più assoluto e svergognato, in alcuni casi raggiungendo picchi qualitativi ancora ineguagliati. Si pensi soltanto alle ascese dei Nirvana o dei Radiohead, band che cambiarono il genoma del rock; negli Stati Uniti il rap si stava facendo le ossa nel duello infinito tra le due coste. Nel frattempo, la dance sceglieva la strada dell’abbandono, della perdizione espressiva, nonché della corporeità sfrenata; in breve, ponendosi in un perpetuo bilico tra l’Eros e il Thanatos artistici.
“Jilted” si traduce come “abbandonata” e non è difficile intuire perché quasi un’intera generazione si definisse come tale, nel Regno Unito straziato da un ventennio di Thatcherismo. Molti giovani delle classi meno abbienti – meno considerate dalle politiche elitarie dei conservatori di Westminster – trovarono una valvola di sfogo nella liberazione musicale offerta dai rave, dalle sostanze psicotrope, dal movimento incessante e ripetitivo di un corpo che, a tutti gli effetti, si abbandonava al ritmo.
I Prodigy avviarono il processo, confermandolo tre anni dopo con l’eccellente The Fat of The Land, ma non ne furono l’unico ricettacolo. Difatti, rispettivamente nel 1995 e nel 1996, si unirono al movimento big beat le anarchie sintetiche dei Chemical Brothers e le euforie assurdiste di Fatboy Slim. Le differenze con la band di Liam Howlett erano evidenti: se questa rappresentava il lato più aggressivo della corrente musicale, facendosi portavoce di quella sottocultura che viveva di rave e di rabbia, i Chemical Brothers interpretarono l’universo festaiolo come una continua ode al beat, la musica come un ritorno su se stessa, come un flusso interminabile che non poteva che culminare nel loro capolavoro, Dig Your Own Hole (1997), probabilmente il disco migliore dell’intera stagione big beat.
Dunque, se da un lato abbiamo la notte cosmica e furente dei Prodigy e quella delle sonorità lascive e ipnotiche dei Chemical Brothers, dall’altro lato abbiamo Fatboy Slim, che alla crisi identitaria dei Novanta rispondeva con un mantra attualizzatosi solo con una sua canzone di molto successiva al periodo: “Eat, Sleep, Rave, Repeat” (2014). E ancora: se nei Prodigy avevamo la musica della “meditazione violenta” e nei Chemical Brothers la musica dell’annullamento di sé, con Fatboy Slim e il suo You’ve Come a Long Way, Baby (1998) si passava ad abbracciare, con un sorriso spianato, l’edonismo, il raggiungimento dell’assoluto tramite il corpo e il movimento. La canzone Right Here, Right Now ne è l’esempio più lampante: un beat trascinante e al limite del mistico; i sample del violino e dei synth catapultano l’ascoltatore in un circolo di auto-affermazione paradisiaca, in cui la frase “right here, right now” diventa la sola verità da seguire.
Queste furono le tre grandi anime del big beat, le tre migliori interpretazioni (non ce ne vogliano i Propellerheads) di un sentimento giovanile che in quegli anni aveva bisogno di una via d’uscita. La trovò in questa e in decine di altre forme musicali che in quegli anni ubriacavano la nightlife inglese. Alla follia di quel decennio si è sostituita, oggi, la sua pantomima, rappresentata al meglio da una house music sempre più spinta verso il banale e il demenziale, in un circolo – stavolta veramente deleterio – dal quale forse l’unica uscita è seguire il consiglio dei Chemical Brothers: “scavati la tua fossa”.