“Intanto posso già dirti che i due ultimi studi sono molto strani. Quadri da 30, una sedia di legno e di paglia giallo pieno su un pavimento di mattoni rossi contro la parete (giorno). Poi la sedia di Gauguin, rosso e verde, umore notturno, pareti e pavimento anch’essi rosso e verde, sul sedile due romanzi e una candela.”[1]
Con queste parole Vincent van Gogh descrive all’amato fratello Theo i suoi due ultimi lavori, in una lettera del dicembre 1888.
Le tele in questione sono La sedia di Vincent (1888) e La sedia di Gauguin (1888), oggi fra le opere più celebri del pittore olandese, conservate rispettivamente alla National Gallery di Londra e al Van Gogh Museum di Amsterdam.
Entrambe sono state realizzate nello stesso periodo, nel dicembre 1888, dopo la disfatta avvenuta nella casa gialla.
Van Gogh nel febbraio del 1888 si era trasferito da Parigi ad Arles, nel sud della Francia, alla ricerca di nuovi colori e nuovi stimoli e, soprattutto, con il sogno di fondare una comunità di artisti con i quali lavorare e convivere. Quest’idea lo porta ad affittare in maggio un’ala della “casa gialla”, una piccola abitazione sgangherata in place Lamartine dove spera di insediare la tanto agognata gilda di pittori.
Per i primi mesi ad Arles è solo, senza nessuna compagnia, in costante difficoltà economica perché i suoi quadri non si vendono, e visto di malocchio dagli abitanti del paese. A nessuno piace quel tipo strano che se ne va in giro mal vestito, con il cavalletto sottobraccio e passa decisamente troppo tempo al bordello.
In questa situazione difficile, van Gogh conserva però la sovrumana dedizione al lavoro che lo contraddistingue, e la speranza. Nelle lettere a Theo che vanno dalla fine di giugno alla metà dell’ottobre 1888, si percepisce in ogni frase, in ogni riga, l’immensa fiducia che Vincent coltiva per la venuta di un artista in particolare:
“Sono proprio curioso di sapere che cosa farà Gauguin. Spero possa venire.”[2]
Scrive alla metà di giugno, e poi ancora, a luglio:
“Se Gauguin non verrà a lavorare con me, non avrò altra ragione per equilibrare le mie spese che il mio lavoro. Questa prospettiva mi spaventa abbastanza.”[3]
Per quanto il pittore anelasse la presenza del francese, questo non era giunto ad Arles con delle grandi aspettative.
Paul Gauguin (1848-1903) era un uomo forte, che aveva combattuto nella guerra franco-prussiana, era un pittore risorto dalle ceneri di un agente di cambio, separato dalla moglie e dai figli, con tutta una vita alle spalle. Era un uomo sicuro, come si nota dai suoi autoritratti: fissa lo spettatore negli occhi, senza timore, al di sopra dei suoi folti baffi. Aveva il sogno dei Tropici e del Perù, che aveva visitato da giovane e ancora gli apparivano come il Paradiso, la Terra Promessa, la meta ultima.
Arles non era che un approdo momentaneo, e van Gogh un pittore discreto e un personaggio strano con cui condividere casa, nulla di più.
Vincent invece ammirava, quasi osannava Gauguin, si sentiva come un allievo con il maestro ed era pronto a nascondere i numerosi problemi che sorgevano quotidianamente tra loro.
Infatti, per quanto van Gogh desiderasse che la loro convivenza funzionasse, i loro caratteri erano troppo diversi. Van Gogh rimaneva schiacciato dal carattere dell’altro e quest’ultimo si sentiva soffocare ad Arles.
Come se non bastasse, anche la concezione di arte dei due era molto diversa. Van Gogh dipingeva con il modello davanti, mai a memoria, e non trovava che rielaborare un soggetto potesse essergli d’aiuto.
Gauguin invece tentava di astrarre, usava la memoria, dipingeva in studio un soggetto visto ore prima. Inoltre non comprendeva come van Gogh potesse usare tutto quel colore nelle sue tele, rendendole così pastose quando sapevano entrambi quanto fossero costosi i colori e quanti pochi soldi avessero a disposizione per comprarli.
La convivenza durò appena due mesi, e dopo il dramma del 23 dicembre i due si divisero per non rivedersi mai più.
Van Gogh, com’è noto, si era lacerato il lobo dell’orecchio ed era stato portato in ospedale, facendo poi ritorno nella casa gialla poco dopo l’incidente. Gauguin era scappato alla vigilia di Natale, lasciandolo di nuovo solo.
È in questo periodo che inizia le tele con le sedie.
Il soggetto è appunto lo stesso, ma i quadri sono ben distinti, impossibili da confondersi. Sono molto simili, l’impostazione è la stessa, il soggetto è quello, l’inquadratura è la medesima, ma sono terribilmente diversi; l’antitesi l’uno dell’altro, tant’è che si danno le spalle.
Create nello stesso tempo, rappresentano l’autore stesso e Gauguin, o meglio la sua assenza, come ricorda Vincent in una lettera ad Albert-Émile Aurier:
“Alcuni giorni prima della nostra separazione, quando la malattia mi costrinse a un ricovero in ospedale, ho cercato di dipingere il suo posto vuoto.”[4]
La sedia di Gauguin ha i colori caldi dei verdi e dei rossi, in forte contrasto cromatico. È un notturno, la luce arriva dalla candela poggiata sulla seduta e da quella sullo sfondo. La sedia in sé è in legno scuro, lavorata, dalle linee morbide e suadenti. Il pavimento non si distingue, sembra ricoperto da riflessi di luce e ombre, risultando enigmatico.
Sulla sedia sono posati due libri, due romanzi francesi, come precisa van Gogh in una lettera, e la candela. I libri rappresentano la cultura, l’altezza intellettuale di Gauguin, e la candela la luce spirituale che essi portano, e che Paul sprigionava agli occhi di Vincent.
La seduta appare morbida, l’imbottitura verde confortevole.
La sedia di Vincent è tutto l’opposto.
Van Gogh ha realizzato un numero enorme di autoritratti nel corso della propria breve carriera, ma questo è l’unico autoritratto metaforico, privo della propria reale fisionomia.
La sedia con cui si rappresenta è scheletrica, scialba, povera. È una sedia modestissima, in legno e paglia, costruita con lunghe linee rette e pungenti. I colori sono i suoi, il giallo e l’azzurro, uno dei contrasti cromatici preferiti dal pittore durante il periodo di Arles.
La seduta appare economica, scomoda, di poco conto, ma il pavimento sotto di essa è ben riconoscibile questa volta, con le piastrelle arancioni che portano alla fuga sullo sfondo dove s’intravedono la firma del pittore e i germogli di qualche vegetale, a simboleggiare la nuova vita che van Gogh stava disperatamente inseguendo dopo il disastro.
Sulla seduta sono poggiati la pipa del pittore e la sacca di tabacco. Nient’altro. Niente libri, niente romanzi e nessuna luce intellettuale per van Gogh, il pittore non si attribuisce alcun privilegio, riconosce solo di essere vittima di un vizio.
Le due tele sono diverse e opposte in tutto: nei colori, nelle forme, in ciò che rappresentano. Van Gogh raffigura i loro metodi diversi di dipingere e di concepire l’arte. La sua sedia è alla luce diurna e rappresenta il momento in cui Vincent dipinge, in quanto deve avere il modello davanti. Mentre la sedia di Gauguin è un notturno, perché il francese può lavorare anche di notte a memoria.
Sono complementari, come il giorno e la notte.
L’idea della sedia come rappresentazione di sé e dell’assenza dell’amico è stata probabilmente ispirata da un’illustrazione di Luke Fields, testimoniata dallo stesso Vincent in una lettera a Theo:
“Edwin Drood è stata l’ultima opera di Dickens e Luke Fields, divenuto famoso grazie a queste piccole illustrazioni di Dickens, è entrato nella sua camera il giorno della sua morte, ha visto la sua sedia vuota ed è per questo che uno dei vecchi numeri del Graphic contiene l’impressionante disegno: The Empty Chair. Sedie vuote- ce ne sono sempre di nuove, altre se ne aggiungeranno e prima o poi non resteranno che… empty chairs.”[5]
Vincent possedeva quasi certamente quell’illustrazione, e l’aveva sicuramente ben presente. È probabile che l’abbia usata come punto di partenza per i quadri.
Creare questi due dipinti è servito a van Gogh per esorcizzare l’assenza dell’amico a cui non aveva potuto dire addio, e per cercare di conoscersi e di ritrovarsi dopo ciò che era successo. L’arte è sempre stata per Vincent qualcosa che dovesse aiutare gli altri, ma in questo caso ha aiutato se stesso.
1) Ingo F. Walther e Rainer Metzger, Van Gogh – Tutti i dipinti, 2015, Taschen, Bibliotheca Universalis.
2) Martin Gayford, The Yellow House – Van Gogh, Gauguin and Nine Turbulent Weeks in Arles, 2006, Penguin Books, London.
3) Erika Langmuir, The National Gallery – Piccola guida, 2006, National Gallery Company, Londra.
[1] Lettera 563 a Theo van Gogh.
[2] Lettera a Theo van Gogh, metà giugno 1888.
[3] Lettera a Theo van Gogh, luglio 1888.
[4] Lettera 626, ad Albert-Émile Aurier.
[5] Lettera 252, a Theo van Gogh.