L’ingloriosa fine del caso mediatico montato contro il regista Fausto Brizzi ha riacceso i riflettori sulle campagne di facile indignazione promosse da Le Iene. Ancora una volta il cosiddetto giornalismo investigativo si è rivelato per quello che è: moralismo facile e talmente ingenuo da non rendersi conto di essere diventato lo strumento per vendette, rancori e ripicche personali. Le Iene sognavano di diventare il portabandiera italiano del movimento #MeToo e invece sono cadute nell’ennesima fake news, questa volta sanzionata solennemente perfino da una magistratura italiana, non meno incline a farsi strumentalizzare in campagne politiche, culturali e sociali.
Il caso è noto: sul finire del 2017 una serie di servizi televisivi andati in onda su Le Iene portavano alla luce le accuse – per la gran parte anonime – di alcune donne, prima contro un regista italiano non ben precisato, poi, una volta individuato ed identificato dal Web, esplicitamente contro Fausto Brizzi. Per mesi Le Iene hanno montato lo scandalo, grazie a tante donne disposte a fare la loro comparsata televisiva nel programma, ma meno inclini a rivolgersi alla sede in cui dovrebbero essere affrontate queste gravi questioni. In tribunale, alla fine, arrivano solo 3 denunce, 2 non ammissibili per decorrenza dei termini e una archiviata dopo mesi, perché le indagini criminali hanno portato alla conclusione che “i fatti non sussistono”. In questo modo fallisce miseramente l’ambizioso progetto de Le Iene di cucire addosso a Fausto Brizzi il profilo del“Wenstein de’ noantri”. Anzi, si ottiene addirittura l’effetto opposto: con questo caso la stampa stessa, sorprendentemente, ha iniziato a prendere coscienza con orrore del clima da “caccia alle streghe” che il sistema mediatico riserva a vicende simili (e più in generale a qualsiasi notizia di cronaca giudiziaria). Ormai nella mentalità comune giornalistica è passato un gravissimo capovolgimento della civiltà giuridica occidentale: è l’accusato che deve riuscire a discolparsi, nonostante la difesa abbia dalla sua un sistema mediatico e giudiziario schierato in blocco a prescindere in suo favore. Si tratta di una sorta di ordalia mass-mediatica, che rappresenta l’unico modo attraverso cui chi riesce a uscire indenne da questo fuoco divoratore può forse sperare di essere dichiarato innocente o – per dirla meglio secondo il celebre motto illuminista “calunnia, calunnia, qualcosa resterà” – può ambire a un qualche sospetto di innocenza, restando comunque vittima dell’interpretazione colpevolista decisamente più diffusa. Non a caso Le Iene e i simpatizzanti di queste campagne di aggressione mediatica si sono subito profusi in riflessioni di erudizione forense per trovare un modo per mantenere intatto il sospetto e discolparsi della palese infondatezza giuridica dei propri servizi.
Non è la prima volta che le corti di giustizia e il sistema mediatico giocano un brutto scherzo a Le Iene: era già accaduto con il caso Blue Whale. Ricordate i video dei giovani russi che si buttavano giù dai palazzi, terrorizzati da un gioco a cui partecipavano in oscure chat su Internet? Si scoprì abbastanza presto che quei video erano falsi. Il personaggio che veniva additato come il sadico responsabile di un impero informatico del male si è rivelato a livello giudiziario, come abbiamo raccontato, una sorta di genio del mercato che è riuscito a creare, secondo la sua ambizione, un marketing dell’orrore, presidiando alcuni settori borderline di un certo mondo creepy che popolano il Dark Web. Del resto, la notizia del gioco del terrore che mieteva vittime in rete si è dimostrata presto un ottimo caso di studio delle dinamiche perverse di un sistema mediatico che ha un disperato bisogno di maggiori conoscenze filologiche per riuscire a comprendere con maggiore consapevolezza che le fonti non servono a niente se non si riesce a ricostruire tutta la filiera, cioè come sono legate tra loro da rapporti di interdipendenza: quattro fonti favorevoli e una contraria non fanno propendere per l’interpretazione favorevole se si riesce a discernere con chiarezza che le quattro fonti favorevoli in realtà dipendono tutte le une dalle altre e quindi valgono in realtà una, tanto quanto l’opinione contraria.
Ma Le Iene non hanno mancato di realizzare servizi penosi sul flagello delle fake news, dedicati ad analizzare i meccanismi del Web che favorirebbero il proliferare delle bufale, senza rendersi conto, però, di esserne spesso cadute vittima loro stesse, anche per una scarsa padronanza del linguaggio del Web, in cui video, foto e chat estreme rappresentano un microcosmo su cui affacciarsi con prudenza, governato, come abbiamo visto, non soltanto da esigenze di realismo, denuncia sociale o personale, ma anche da grossi interessi economici (pubblicitari) e da ricerche linguistico-visive che, un po’ come la lirica greca o trobadorica, non vanno automaticamente ricondotte a reali esperienze di vita.
Del resto, anche il mondo del fumetto si è rivelato particolarmente ostico per il giornalismo d’inchiesta de Le Iene: è rimasta negli annali, quasi un moderno florilegio razzista, l’idea veicolata da alcuni loro servizi secondo cui gli anime stimolerebbero una sorta di ipersessualizzazione nella società giapponese. Definire “bordelli in incognito” i Maid Cafè del Giappone, in cui ragazze vestite alla maniera degli anime si prodigano a favore dei clienti, questa sì è una vera oscenità: sarebbe come dare un parere negativo sul popolo italiano sulla base della cafonaggine del triste spettacolo dei “gladiatori” che intrattengono i turisti a Roma.
Nemmeno i principi della scienza, poi, sono mai stati particolarmente di casa presso Le Iene. Non si è mai sentito un serio mea culpa per gli scandalosi servizi strappalacrime che per mesi dipingevano il metodo Stamina come una cura miracolosa. Mesi e mesi di insulti alla cecità dei ministri della Salute e della medicina “ufficiale”, insensibile alla sofferenza e al progresso. Peccato che poi l’ideatore di quel metodo sia stato reiteratamente condannato per truffa. Del resto, non contenti della lezione, si sono messi ad esplorare i cosiddetti metodi alternativi di cura del cancro, una vergognosa e gravissima opera di disinformazione. L’apoteosi è stata raggiunta infine con la bufala dei pericolosi esperimenti nucleari tenuti segreti, dedicati ai laboratori di fisica nucleare del Gran Sasso. Il piccolo particolare che è sfuggito in quell’occasione è che un laboratorio di fisica nucleare non c’entra nulla con una centrale nucleare: non si possono neanche minimamente paragonare procedure e rischi. L’ultimo, impietoso, esempio di un giornalismo d’inchiesta che meriterebbe piuttosto di finire sotto inchiesta.
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