Julian Schnabel racconta Van Gogh in un film sull’essere artista. L’incontro tra cinema e pittura è descritto in quest’articolo attraverso una panoramica di opere dietro gli ultimi anni della vita dell’artista.
La 75esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia accoglie il mondo dell’arte con un film che omaggia gli ultimi anni di vita di Van Gogh, dal fatale incontro con Gauguin nel 1888 fino al suicidio, nel 1890. Il titolo dell’opera è “At Eternity’s Gate”. Sullo schermo il celebre volto di Willem Defoe, mentre alla regia un nome noto nel panorama artistico, Julian Schnabel, le cui opere d’arte sono esposte al MoMa, al Met, al Pompiduou e alla Tate. Schnabel vuole dare uno sguardo diverso alla storia di Van Gogh, raccontare la pittura e il pittore. Si tratta di un film di finzione, lontano dalla razionalità descrittiva, ma concentrato su cosa vuol dire essere un’artista. Secondo Schnabel si può raccontare un’opera d’arte solo con un’altra opera d’arte.
Il titolo del film è emblematico poiché richiama l’omonima opera di Van Gogh del maggio 1890, realizzata durante un periodo di convalescenza in seguito ad una crisi alla clinica di Saint-Rémy-de-Provence. Questa fu la sede per la realizzazione di 150 opere dominate da un blu malinconico. Così accade nel dipinto ad olio At Eternity’s Gate, basato su una precedente litografia intitolata “Worn Out”. Il soggetto è un veterano di guerra, Adrianus Jacobus Zuyderland. L’uomo è seduto in un angolo, le mani affondate nel viso in un atteggiamento sconsolato e disperato. Tuttavia è particolare il titolo che Van Gogh diede all’opera. Anche nei momenti di tristezza e di sconforto c’è qualcosa più in alto in cui credere. Sono le porte dell’eternità. Un messaggio intriso di profonda religiosità che inscena il ritratto di un Vincent ancora speranzoso per la sua guarigione.
È il 16 maggio 1890 quando Van Gogh lascia la clinica di Saint-Rémy, dove i bagni termali non avevano portato ad alcun miglioramento. In un periodo di lucidità dopo un tentativo di suicidio per assunzione di colori a tempera, Vincent lascia la clinica, raggiunge il fratello Theo a Parigi e questo lo indirizza in un piccolo paesino, Auvers-Sur-Oise. Qui l’artista incontra il Dottor Gachet. C’è da subito un’identificazione tra medico e paziente, due artisti, due uomini nervosi e sconsolati. Gachet riconosce in Van Gogh i tratti tipici della malinconia, da lui approfonditamente studiata, ma è lo stesso Vincent a ritrarre Gachet nel 1890 con una fisionomia malinconia. Ne Il Ritratto di Gachet, l’uomo appoggia il volto sulla mano, lo sguardo è perso, i muscoli contratti, la bocca priva di espressività. Le pennellate spezzate sullo sfondo simboleggiano un nervosismo di fondo, dove l’unica speranza è rappresentata dal fiore. Sembra che Van Gogh crei un suo autoritratto attraverso l’immagine del suo medico. Sotto le dense pennellate si avverte però lo sconforto dell’artista, che vede un dottore più malato di lui e incapace di aiutarlo.
Il 29 luglio 1890 Van Gogh muore. È ancora dubbia la causa della sua morte, ma qualunque fosse stata la provenienza del colpo di arma da fuoco, l’artista ha deciso di lasciarsi morire. Premonitore è il dipinto “Campo di grano e volo di corvi”, dove il paesaggio lugubre è caratteristico di molti scenari dell’artista dal 1888 al 1890, come “Passeggiata al chiaro di luna”. C’è sempre però un’aura di speranza, dalla luna nascente al giallo vivo del grano. La dualità cromatica riflette la natura scissa e tormentata dell’artista. Forse è questo che ci aspettiamo dal nuovo film di Schnabel, anche se le trame più profonde della personalità di Vincent rimangono ancora avvolte nel mistero.