A Los Angeles, una rosa crebbe dal cemento. Nel settembre del 1996, ne venne sradicata. Si tratta della data di morte del rapper Tupac Shakur, data che segnò un punto di svolta, un risveglio, nella comunità hip-hop del tempo.
Tupac era un ragazzo cresciuto in strada, educato dal cemento. Era un rapper, tra i migliori ammirati durante gli anni ’90. Era, infine, un poeta. I suoi versi possono essere considerati pietre miliari della poesia afro-americana, poesia degli oppressi e di coloro che spesso sono costretti alla sopravvivenza urbana. Il genere affonda le sue radici nello spoken word di artisti come Gil Scott-Heron e i Last Poets. Il primo, in particolare, fu abbastanza influente da divenire una sorta di oracolo per chi volesse fare del rap un mezzo espressivo nobile ed elaborato.
Il timore che la fiamma poetica si stia affievolendo è giustificato, dato che le tendenze contemporanee del genere, sempre più lanciato verso una autoreferenzialità, che sfocia in alcuni casi nel ridicolo, in dichiarazioni irriverenti per il mero gusto d’esserlo.
Si possono fare canzoni leggere, ma perché fare solo canzoni leggere?
Il lessico rimane spesso ancorato allo stereotipo “coatto” del rap, quello che lo identifica con la necessità di mettere in mostra le proprie capacità tecniche, la necessità di farsi riconoscere unicamente in quanto migliore degli altri.
La tendenza può essere invertita, perché casi d’eccellenza vi sono, anche andando a guardare nell’hip-hop mainstream. È il caso di Kendrick Lamar, che potrebbe essere preso come esempio di una “via di mezzo”: non per niente, è stato considerato il diretto erede di Tupac, di quella corrente che, rimanendo in bilico tra strada e celebrità, riesce a fare delle rime un filtro universale, con cui raccontare, interpretare e connotare il mondo dei sobborghi poveri metropolitani. Altro esempio, spostandoci sulla costa orientale, è quello di Aesop Rock, tessitore di rime affilate e più ricercate della norma. La sua “Daylight” (contenuta nella playlist in fondo all’articolo) è una cornucopia lessicale, straripante delle preoccupazioni del rapper di New York sulla sua quotidianità, immersa nello stile di vita nordamericano.
Nella stessa playlist sono presenti altri artisti che hanno deciso di seguire la strada poetica dell’hip-hop. Alcuni affiancandola con una tumultuosa critica della contemporaneità (i suddetti Kendrick e Aesop, ma anche i Death Grips, Kate Tempest o Saul Williams), altri cospargendo di intimità le proprie rime, come accade per Earl Sweatshirt, talentuoso rapper appena ventenne. Spaziando dall’astrattismo all’impressionismo musicale, passando per il più devastante dei realismi, questi griot odierni rispettano le radici complesse dei testi rap, osando dal punto di vista tematico e sonoro.