Sono passati pochi mesi dalle elezioni che hanno visto Erdogan stravincere: sembrava che la Turchia fosse ormai avviata a finire completamente nelle mani del nuovo sultano ottomano, dopo che il referendum costituzionale dell’anno scorso gli aveva garantito ancora più poteri. Turbolenze finanziarie, però, potrebbero inaspettatamente frenare i suoi piani e costituire una grande occasione per l’Occidente e il Medio Oriente.
Ad inizio Agosto infatti, dopo l’annuncio di Donald Trump di voler raddoppiare i dazi sull’acciaio e l’alluminio proveniente dalla Turchia, la lira turca ha perso oltre il 20% del suo valore rispetto al dollaro, un crollo non inaspettato perché da Gennaio la valuta del Paese ha perso circa il 40% del suo valore rispetto al dollaro. Le ragioni del resto sono da rintracciarsi proprio nella politica economica portata avanti dal padre-padrone della Turchia: l’inflazione da tempo ha raggiunto un tasso annuale di quasi il 16%, ma Erdogan si rifiuta di decidere un rialzo dei tassi di interesse con cui limitare la quantità di denaro in circolazione e in questo modo aumentarne il valore. Questo gli è garantito proprio dalla riforma costituzionale che lui ha fortemente voluto: adesso ha assicurato il diritto di nominare personalmente il capo della Banca Centrale. Ad aggravare ulteriormente un quadro di concentrazione di potere sempre più ossessivo dopo il fallito “tentato colpo di Stato” dell’estate 2017 c’è il fatto che il ministro dell’Economia, che dovrebbe affrontare questo difficile scenario economico, è il genero di Erdogan, Berta Albayrak, una persona sconosciuta a livello internazionale, senza particolari esperienze economiche: uno scenario da peggior nepotismo.
La necessità della Turchia di uscire dalla grave crisi in cui rischia sempre di più di precipitare potrebbe però rappresentare una grande opportunità politico-diplomatica. Da quando, 15 anni fa, Erdogan ha preso il potere in Turchia il Paese ha portato avanti una linea sempre più ambigua nel suo interventismo estero. Il “sultano”, dapprima tutto concentrato a favorire l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, ha poi utilizzato la carta delle legittime perplessità e dal conseguente stallo nelle trattive con l’Europa per spingere su un ritorno all’Islam politico. Del resto di fronte a un Paese che il fondatore della Turchia moderna, Kemal Ataturk, aveva forzatamente cercato di convertire a una neo-religione fondata sul più bieco dogmatismo laico, Erdogan ha avuto gioco facile a mobilitare l’umiliato senso religioso del Paese profondo e costruirvi la base più sicura del suo successo politico. L’Islam politico è il cancro che dalla fine del colonialismo corrode ogni speranza di stabilità, pace e prosperità per il Medio Oriente, con gli scontri settari che promuove e al cui interno Erdogan ha voluto inserirsi per proporre un’agenda neo-ottomana. La Turchia infatti negli ultimi anni ha più volte cercato di entrare nel complesso scacchiere mediorientale con la volontà di ergersi a portabandiera e tutela dell’Islam sunnita. In Egitto Erdogan ha sostenuto il partito fondamentalista dei Fratelli Musulmani nella sfortunata Primavera Araba, ma poi la deriva teocratica a cui si stava avviando l’Egitto è stata bloccata dal colpo di Stato di Al Sisi. In Iraq e in Siria Erdogan è stato sospettato (con fondati argomenti) di aver aiutato economicamente e logisticamente i terroristi dell’ISIS, per destabilizzare due Paesi in cui hanno importanti roccaforti due suoi grandi nemici: i curdi e gli iraniani sciiti, che da sempre hanno mire su Iraq e Siria. Del resto le responsabilità della Turchia nel disastro della guerra siriana sono tutt’altro che secondarie: Erdogan, dopo che l’ingresso della Russia nella guerra aveva scompigliato le carte, è arrivato a far sconfinare l’esercito turco in territorio siriano per fare quello che l’ISIS non riusciva più a garantirgli: combattere i curdi per evitare ad ogni costo lo spettro della formazione di uno Stato dei curdi in Siria, una minaccia per la Turchia, che da sempre lotta contro le mire autonomiste dei curdi nel proprio territorio. In questo modo la Nazione si è garantita un posto tra i potentati stranieri (Russia, Arabia Saudita, Iran, USA) che stanno discutendo come spartirsi la Siria. Per costruirsi un profilo ancora più convincente di paciere del mondo sunnita la Turchia di Erdogan è riuscita anche a incunearsi nello scontro tra Arabia Saudita e Qatar, cercando di mediare nella crisi che da tempo divide gli sceicchi dei due Paesi. I tentacoli della Turchia sono arrivati fino al Pakistan, la frontiera asiatica dell’Islam sunnita.
La Turchia di Erdogan guarda sempre di più verso l’Oriente a discapito dell’Occidente, anche se continua a far parte dell’Alleanza Atlantica, la NATO. Questa crisi economico-politica, che Erdogan considera il colpo di grazia che l’Occidente americano vorrebbe assestare al suo Paese, potrebbe essere l’occasione per far rientrare in ranghi esclusivamente regionali una potenza che prima l’ideologia di Ataturk e poi gli interessi tattici della Guerra Fredda avevano in maniera innaturale innalzato agli onori di grane potenza occidentale, con funzione di cuscinetto anti-sovietico in Medio Oriente. Un terzo incomodo tra Arabia Saudita e Iran nello scacchiere mediorientale e panislamico può essere la grande occasione per un nuovo (e migliore) ordine in un Medio Oriente. La nuova intesa che si prospetta tra Erdogan e Putin sarebbe la sanzione di uno sguardo rivolto completamente ad Oriente. Un alleato inaffidabile in meno per l’Occidente, che con l’inesorabile e imminente perdita di valore del petrolio potrebbe finalmente liberarsi anche dalla sudditanza agli interessi dell’Arabia Saudita, un altro Stato mediorientale, come la Turchia di Erdogan, che ha finanziato e armato quel terrorismo jihadista che ha colpito negli ultimi decenni l’Occidente. Il Medio Oriente potrebbe così finalmente non essere più un rilevante centro dello scacchiere internazionale, ma una semplice regione orientale, con conflitti (lo scontro tra sunniti e sciiti) di rilevanza esclusivamente locale: sarebbe l’ideale sia per l’Occidente, sia per l’Oriente, non più sottoposto all’invadenza occidentale.