La democrazia è nata in Grecia nel VI sec a.C. Fin dalle sue origini ha determinato sempre un rapporto ambiguo tra i centri del potere e il popolo: in alcuni secoli ha subito un netto rifiuto, in altri è stata accantonata e in altri invece è divenuta oggetto di una profonda esaltazione. Oggi nei paesi occidentali la democrazia è conosciuta come la sola forma auspicabile di buon governo e la missione di molti stati è stata quella di esportare questa formula laddove ancora non fosse giunta. Nonostante la democrazia sia nata in Grecia, Platone, il grande filosofo greco che getta le basi del pensiero occidentale, non aveva un buon giudizio su questa modalità di governo che considerava degenere.
Bisogna precisare che la democrazia nell’antica Grecia si differenzia però da quella odierna per alcuni aspetti: in primo luogo i diritti politici ad Atene spettavano solo a coloro che godevano della cittadinanza, cioè i figli maschi con padre ateniese che avessero compiuto 18 anni d’età e avessero prestato almeno due anni di servizio nell’esercito. Tutte le altre persone erano escluse dalla partecipazione politica. Altra caratteristica della democrazia ateniese era che questa era diretta e i cittadini esprimevano la propria volontà nell’assemblea (ekklesía); oggi invece la democrazia è rappresentativa. Inoltre ad Atene non era prevista una divisione dei poteri, i cittadini svolgevano tutte le funzioni legislative, esecutive e giudiziarie.
Platone, (428/427-348/347 a.C.) discendente di una grande famiglia aristocratica di Atene, era molto vicino alla politica ateniese. Quando nel 404 un colpo di stato oligarchico porta al potere i Trenta Tiranni molti di questi erano familiari e conoscenti di Platone: essi invitarono il giovane a unirsi a loro, ma Platone rifiutò l’offerta non condividendo le azioni del nuovo governo. Successivamente venne ripristinata la democrazia, Socrate cominciò a essere inviso ai governanti e fu portato in giudizio con l’accusa di empietà perché aveva scelto di diffondere la filosofia con il dialogo in strada.
Socrate fu condannato a morte e alla sua scomparsa non aveva lasciato nulla di scritto perché era convinto che solo il contatto diretto potesse portare a praticare la filosofia. La condanna a morte di Socrate fu assistita da Platone quando quest’ultimo aveva circa 28 anni. Platone raccolse l’eredità del maestro, e, non potendo dialogare in città, decise di scrivere un libro.
La consapevolezza di Platone era che le città esistenti erano malgovernate e
«non sarebbero cessati i mali finché non fosse pervenuta alle cariche politiche la classe di chi fa filosofia».
Fu in quest’ottica che nacque La Repubblica, un’opera filosofica in forma di dialogo scritta intorno al 390-360 a.C. L’opera è strutturata in dieci libri e ha per protagonista proprio Socrate, la cui immagine va modificandosi nel corso dell’opera seguendo un processo di purificazione. Lo sguardo di Platone non è rivolto verso il futuro, in improbabili utopie, ma è rivolto verso il passato, questo perché il passato non può essere cambiato ma può essere ricordato: è un patrimonio che è utile rivivere perché attraverso di esso può essere possibile criticare il presente e rende possibile anche modificare il corso delle cose.
Il titolo “Repubblica” deriva dal greco Politeia che viene in genere reso con il termine “costituzione” anche se in realtà il termine ha una maggiore complessità semantica perché si riferisce sia alla cittadinanza come condizione, sia al complesso dei cittadini. La Politeia intesa come “costituzione” non è solo il complesso delle leggi che regola la vita pubblica, ma si riferisce anche alle persone che vivono nella città.
È risaputo che Platone fosse avverso alla democrazia, considerandola un prodotto casuale di opinioni portate da cittadini che non conoscevano e non sapevano quello che facevano. È questa l’idea di fondo che percorre La Repubblica, idea che implica la subordinazione della scienza politica alla filosofia. Proprio nell’ottavo e nono libro, attraverso le parole di Socrate, Platone offre una disamina sui differenti tipi di Politeia.
La costituzione perfetta per Platone è quella monarchica, con a capo un governante-filosofo, oppure un’oligarchia retta dalla classe dei sapienti.
Invece secondo il filosofo le forme degeneri dello Stato sono:
La timocrazia: (da timé: considerazione, onore) Platone identifica questo ordinamento con quello di Sparta. Questo regime ambisce a mantenere l’onore per i magistrati e la vita comunitaria dei guerrieri. Al potere però non ci sono i filosofi, ma uomini rozzi che hanno come unico interesse la guerra e la ginnastica. Nella timocrazia i sapienti sono guardati con circospezione e la città è dominata dall’animosità e dall’ira. Gli uomini sono avidi di ricchezza e di piaceri; le ambizioni prevalenti sono mascherate da una buona reputazione esteriore ma non dalle virtù interiori.
L’oligarchia: nell’oligarchia i ricchi comandano i poveri e questi ultimi non possono partecipare al governo. Il passaggio a questa forma di governo avviene a causa dell’avidità di denaro degli uomini della timocrazia. Questi uomini infatti hanno cominciato a fare grosse spese e alla sete di onore si è ora sostituita quella di denaro. Il mercato costringerà progressivamente i meno forti a vendere tutto ad altri più privilegiati esasperando la differenziazione tra una maggioranza di più poveri e una minoranza di più ricchi. Tipico di questo regime è l’adozione di un criterio censitario per l’accesso alle cariche pubbliche e al governo della città; proprio questo ultimo aspetto viene condannato da Platone. La selezione avviene quindi in base al censo e non in base alle competenze. Inoltre altra caratteristica è la conflittualità che si viene generando nella città composta da una parte dai ricchi e dall’altra dai poveri.
La democrazia: il continuo impoverimento dei cittadini causato dagli affaristi al potere dei regimi oligarchici non pone un limite al crescente indebitamento e impoverimento dei cittadini. Questa ininterrotta degenerazione porta però a una progressiva crescita di cittadini ostili ai ricchi che arriveranno alla ribellione. La democrazia nasce proprio in questo contesto: dopo aver rovesciato i ricchi, i poveri si spartiscono gli incarichi di governo, cosa che in genere avviene per sorteggio. Il rovesciamento del vecchio regime porta alla libertà, libertà intesa anche come possibilità di fare quello che si vuole. La persona è dunque libera di agire come vuole e nella democrazia l’azione dell’individuo è singola e non vissuta come parte di un intero. Ma secondo Platone questa forma di governo rende possibile immaginare una pluralità di regimi che non impongono forme; questa mancanza di forma comporta però necessariamente uno stravolgimento di valori e quindi mancanza di gerarchia e proprio questa libertà si traduce secondo Platone in assenza di una regola comune, cioè in anarchia. Secondo la tradizione la democrazia è intesa da Platone come il regime peggiore.
La tirannide: La tirannide deriva da una involuzione della democrazia. Mentre l’oligarchia degenera a causa del denaro, la democrazia invece si rovina a causa della sua eccessiva libertà. La libertà che essa comporta è infatti senza principi e senza autocontrollo. La tirannide che ne deriva è un potere meramente personale, ne consegue che il regime è destrutturato e informe.
L’indagine di Platone però non si esaurisce. Attraverso gli insegnamenti di Socrate dimostra che l’anima più felice è quella che presenta un’organizzazione interna aristocratica ed è cioè governata dalla ragione. Socrate riconosce tre tipi di anima: quella appetitiva che è interessata al denaro, l’anima irascibile che è interessata alla vittoria e all’onore; infine l’anima razionale che è interessata alla verità e quindi desidera apprendere. Proprio quest’ultimo tipo di anima, che è quella propria del filosofo, sarà esposta fin dall’infanzia sia al piacere del guadagno che a quello degli onori, ma a differenza delle altre due anime, quella del filosofo disporrà del logos, cioè della capacità di giudicare queste esperienze. Proprio per questa sua caratteristica riflessiva, il giudizio del filosofo sarà più attendibile.
Un altro argomento a favore della superiorità del filosofo è dato dal fatto che il piacere da cui attinge l’anima filosofica non è ne relativo né contingente perché proviene dall’intelletto: conoscere e imparare permette infatti al filosofo di accumulare un patrimonio durevole nel tempo, e può crescere e rimanere piacevole indipendentemente dalla condizione di partenza.
Per Platone inoltre la giustizia politica è solo una raffigurazione della vera giustizia: poiché la vera giustizia è in realtà quella dell’anima. La conclusione del nono libro porta alle seguenti considerazioni: l’impianto della Repubblica è solo provvisorio, il punto nodale è imparare a governare se stessi. Solo chi avrà questa capacità potrà accedere alle cariche governative; per questo motivo il governo è destinato a un gruppo minoritario di persone e non può essere lasciato in mano a una moltitudine come avviene nella democrazia.