SYLVIA PLATH E TED HUGHES – UN AMORE AVVELENATO
Si incontrarono nel 1956, a Cambridge, dove entrambi studiavano. Un’attrazione folle, nutrita dall’irriducibile devozione per la letteratura. Su di loro sono state scritte tante pagine, speculazioni per cercare di sviscerare i più piccoli particolari scabrosi all’insegna della follia e del parossismo ossessivo, giustificate dal fatto che la vena poetica di entrambi scaturisse in maniera significativa dalla componente biografica. In anni più recenti, la figlia Frieda si è battuta affinché questo mangiare sopra i corpi dei suoi genitori finisse, giungendo anche a mettere sotto accusa la produzione del film Sylvia (2003), con Gwyneth Paltrow e Daniel Craig. I versi che Frieda dedicò alla madre sembrano in quest’ottica i più adeguati per ricordare questa coppia, che non ha certo finito di incendiare le penne dei critici:
[…] Insisted on being the oneWho knew best,
Who had the right recipe.
When she came out of the oven
They had gutted, peeled
And garnished her.
They called her theirs.
All this time I had thought
She belonged to me most.
Hanno insistito di essere gli uniciche la conoscevano al meglio,
che avevano la ricetta giusta.
Quando uscì dal forno
l’hanno sventrata, sbucciata
e guarnita.
Hanno detto che era loro.
Per tutto questo tempo ho pensato
che lei fosse mia sola*.
SIMONE DE BEAUVOIR E JEAN PAUL SARTRE – UN AMORE IN AFFITTO
L’indiscussa madre del femminismo moderno e il filosofo esistenzialista per eccellenza erano legati da un contratto di matrimonio morganatico a breve termine, da rinnovare a scadenza di due anni. L’unica paura era quella di assumere sostanze e fisionomia dell’ipocrita famiglia borghese. Ben conoscendo l’umano e i suoi limiti, si erano imposti l’obbligo di avere altri amori, detti contingenti, poiché nella monogamia assoluta il sentimento appassisce senza rimedio. L’altro imperativo, però, era quello di confidarseli sempre. Così ogni giovane ragazza di cui si innamorava Sartre frequentava anche De Beauvoir, e non sono rari i casi in cui la suddetta giovane, alla fine, si invaghiva della Maestra piuttosto che del compagno. Ciò su cui si basava la loro unione era non tanto una passione passeggera, quanto un inestricabile sodalizio intellettuale, letterario, politico. De Beauvoir però nel 1947 incontra lo scrittore Nelson Algren e se ne innamora perdutamente. Tuttavia non lascerà mai Sartre, come scrive in una lettera destinata ad Algren:
«Per te, potrei rinunciare a molto più di un affascinante giovane uomo, lo sai, potrei rinunciare a molte cose; tuttavia non sarei la Simone che ti piace. Se potessi rinunciare alla mia vita con Sartre, sarei una creatura sporca, una traditrice, una egoista.»
ELSA MORANTE E ALBERTO MORAVIA – UN AMORE CRUDELE
Si incontrarono nel 1936. Moravia era già consapevole della propria vocazione letteraria, mentre Morante viveva nella miseria, in un alloggio malmesso. Dopo aver abbandonato gli studi di Lettere, la sua unica fonte di sostentamento era quella di scrivere tesi e di collaborare con varie riviste. Si sposano nel 1941 e trascorsero insieme gli anni difficili della guerra, in fuga poiché accusati di antifascismo. Dal loro esilio in Ciociaria nascerà il quasi omonimo romanzo di Moravia, reinterpretato Sophia Loren sotto la regia di De Sica. Dopo ventisei anni di vicinanza tormentata, in cui Morante non risparmia crudeltà e attacchi di odio sull’amato, la decisione ineluttabile di rompere un legame che si traduceva sempre più come impossibile da sostenere per entrambi. Oggi, li ritroviamo sempre vicini sugli scaffali delle librerie e delle biblioteche. Come se, nonostante la rottura e il buio della morte, continuino irrimediabilmente a sfiorarsi attraverso le pagine dei loro libri. Nel 1985 Morante muore sola, e infelice. Così scriverà Moravia, toccato dalla notizia:
«Ho appreso la morte di Elsa a Bonn, in Germania, dove mi trovavo in viaggio per un’inchiesta giornalistica. Era pieno inverno, aveva nevicato moltissimo. Allora sono uscito, ho camminato a lungo nella neve. Ero commosso e cercavo di dissipare la commozione con il gelo della giornata invernale. Tornai a Roma in tempo per il funerale, andai a vedere la salma esposta nella bara. Il viso di Elsa negli ultimi anni si era trasformato nel senso di una vecchiaia un po’ funesta. Con la morte era tornato a un aspetto quasi infantile, sereno, forse sorridente. Nella corsa del carro funebre i fiori, probabilmente male assicurati alla corona, volarono via uno dopo l’altro e andarono a schiacciarsi sull’asfalto: quei fiori che volavano via tra il carro funebre di Elsa e la mia macchina mi fecero un’impressione delirante e simbolica: così era volata via Elsa dalla mia vita.»
MARY E PERCY SHELLEY – UN AMORE LUTTUOSO
Era uno dei discepoli prediletti del padre quando Mary lo incontrò, nel 1814. Già sposato, il celebre poeta era un uomo affascinante, colto e intelligente. La fuga insieme suggellò la loro unione, che fu però segnata dalla morte. Infatti solo un figlio si salverà dalla morte prematura che spettò agli altri, deceduti ora per malaria ora per dissenteria, lasciando i genitori in spesse crisi di depressione. Mary Shelley rischierà perfino la vita, dopo un aborto spontaneo che le provoca un’ingente emoragia; sarà il marito, Percy, a salvarla, immergendola in una vasca piena di ghiaccio e bloccando in tal modo il flusso del sangue. Nonostante negli ultimi anni prima della morte di Percy si fossero allontanati dal punto di vista sentimentale, il ricordo del loro amore è perpetuo. Così infatti la descrive Percy in una delle sue poesie:
My dearest Mary, wherefore hast thou gone,And left me in this dreary world alone?
Thy form is here indeed—a lovely one—
But thou art fled, gone down a dreary road
That leads to Sorrow’s most obscure abode.
For thine own sake I cannot follow thee
Do thou return for mine.
Mia carissima Mary, perché te ne sei andatae mi hai lasciato solo in questo triste mondo?
In realtà la tua figura è qui – adorabile –
ma tu sei fuggita, giù lungo una triste strada
che porta alla dimora più oscura del Dolore.
Per il tuo bene, non posso seguirti,
torneresti per il mio?
VIRGINIA E LEONARD WOOLF – UN AMORE FELICE
È il 1912 quando Leonard Woolf si accorge di essere innamorato di Virginia Bell. Nonostante molti critici abbiano messo il dito nella piaga insistendo sulla mancanza di attrazione fisica tra i due, sulla totale castità del loro rapporto, nonostante Virginia venga dipinta sovente come una squilibrata, in preda a crisi maniacali e depressive, a un’infelicità costitutiva, a una fragilità sentimentale declinata nelle figure di vari amanti, la più celebre dei quali è Vita Sackville-West, e nonostante, d’altro canto, Leonard venga tratteggiato come l’eterno amante non corrisposto, quello con i piedi per terra, l’infermiere della grande scrittrice, le ultime parole prima del suicidio di Virginia sono indirizzate al loro amore, l’unica possibilità di felicità per lei. E la felicità qui non è intesa come attimo di passione estrema e travolgente, ma come quieta tranquillità, la certezza degli affetti, la sicurezza di un legame; la volontà di lasciarlo intatto oltre la morte.
«Carissimo. Sono certa che sto impazzendo di nuovo. Sono certa che non possiamo affrontare un altro di quei terribili momenti. Comincio a sentire voci e non riesco a concentrarmi. Quindi, faccio quella che mi sembra la cosa migliore da fare. Tu mi hai dato la più grande felicità possibile. Sei stato in ogni senso tutto quello che un uomo poteva essere. So che ti sto rovinando la vita. So che senza di me potresti lavorare e lo farai, lo so… Vedi non riesco neanche a scrivere degnamente queste righe… Voglio dirti che devo a te tutta la felicità della mia vita. Sei stato infinitamente paziente con me. E incredibilmente buono. Tutto mi ha abbandonata tranne la certezza della tua bontà. Non posso continuare a rovinare la tua vita. Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi.»
ZELDA SAYRE E FRANCIS SCOTT FITZGERALD – UN AMORE AL LIMITE
Entrambi ferventi lettori, entrambi innamorati di una vita luccicante e dispendiosa, all’insegna dell’alcol e dell’anticonformismo. Queste qualità portarono subito la coppia al vertice della vita mondana di New York. Tuttavia, le passioni e la sregolatezza inducono Fitzgerald a scrivere i suoi capolavori, come Il grande Gatsby, e l’apporto continuo della moglie, la sua influenza inducono molti a credere che alcuni passaggi siano modellati proprio sulla sua scrittura. Il loro rapporto si incrina sempre di più quando Francis ha un blocco artistico totale che gli impedisce di scrivere qualcosa di buono, e Zelda cade in soventi e logoranti crisi psichiche, che sfociano nella terribile diagnosi di schizofrenia. Nonostante il distacco e i frequenti ricoveri, dopo la morte del marito Zelda revisiona con tutta la dedizione che le rimane il romanzo che verrà poi pubblicato postumo, Gli ultimi fuochi, lavorando parallelamente al suo ultimo romanzo, Caesar’s Things. Verranno sepolti insieme, come epitaffio l’explicit del capolavoro di Francis:
«So we beat on, boats against the current, borne back ceaselessly into the past.»Così remiamo, barche contro la corrente, risospinti incessantemente nel passato.
PAOLA MASINO E MASSIMO BONTEMPELLI – UN AMORE LUNGO UNA VITA
Lei era più giovane di lui di circa 30 anni, e lui era già sposato e con figli. Tuttavia non fu certo questo a separarli. Viaggiarono insieme in giro per l’Europa, frequentarono gli intellettuali più importanti e collaborarono con riviste, scrivendo sempre. Tuttavia è la quotidianità dell’amore a corrodere quello che all’inizio sembrava una passione assoluta, intoccabile e immortale. Da questa insofferenza per la quotidianità nasce il romanzo più importante di Masino, Nascita e morte della massaia, che la rese in odio al regime fascista. Nonostante le difficoltà, nulla separarerà i due scrittori, oggi quasi dimenticati, fino alla morte di Bontempelli, nel 1960. Così, nei suoi appunti, Masino descrive quell’amore:
«Quando m’innamorai portai intero nel mio sentimento l’astratta violenza delle mie private conquiste. E fu un grande amore. Ma proprio per quell’assoluto che m’ostinavo a voler perseguire, dovetti concedere alla vita quanto le spettava. Fu una breccia. Da allora, insensibilmente ma inesorabilmente, particelle invisibili di concessioni, compromessi, abitudini m’inquinarono; e tanto più esse si facevano numerose, tanto meno io m’accorgevo d’esserne invasa e di andar tramutandomi. Ci misero un po’ di tempo a plasmarmi nel peggiore dei modi, quale ora sono. Oggi so che ho perduto, che la mia vita, cominciata come una straordinaria aurora, s’è spenta e fatta al tutto inutile riducendo in cenere anche quei bagliori iniziali, ove avevo creduto di leggere un più nobile e arduo destino.»
* Le traduzioni a fronte sono di chi scrive.
FONTI