Quale utilità può avere, in una società affannata e sempre di corsa come quella attuale, fare teatro o assistere ad uno spettacolo teatrale? Ricercare la risposta ad una domanda all’apparenza così banale è, in realtà, assai difficile. D’altra parte, trattandosi di una forma di espressione artistica, è sempre complesso istituirne analiticamente una definizione. Rifacendosi alle parole di Aristotele
[…] ora tratteremo della tragedia, ricavando dalle premesse precedenti la definizione della sua sostanza: tragedia dunque è mimesi di un’azione seria e compiuta in sé stessa, con una certa estensione; in un linguaggio abbellito di varie specie di abbellimenti, ma ciascuno a suo luogo nelle parti diverse; in forma drammatica e non narrativa; la quale, mediante una serie di casi che suscitano pietà e terrore, ha per effetto di sollevare e purificare l’animo da siffatte passioni.
L’arte in generale, con i suoi molteplici risvolti sensitivi ed interpretativi, evoca necessariamente sensazioni, idee, sentimenti, sia nello spettatore sia nell’autore. Come la pittura o la scrittura, anche il teatro può proporsi come portavoce della non violenza. Il mezzo teatrale consente all’uomo di trasferire gli impulsi sublimati: ciò che Freud definisce io, inconscio. Il teatro è, infatti, una simulazione della realtà, una miniatura della vita, analizzata e amplificata sul palcoscenico e tutto ciò che avviene sul palcoscenico deve essere necessariamente vero, credibile, per essere compreso ed empaticamente assimilato dagli spettatori. Molteplici sono i testi teatrali di estrema violenza. Basti pensare ad Harold Pinter, ne “Il bicchiere della staffa” – un testo breve, un’esemplificazione delle forme di assoggettamento – in cui i protagonisti sono incarnati da un esecutore e una famiglia di vittime torturate. Affrontare un testo di questa portata, non è affatto semplice. L’attore è infatti estraneo a una crudeltà così assoluta ed è costretto a familiarizzare con essa. Di certo, ciò contribuisce alla responsabilizzazione dell’opinione pubblica e del singolo, rispetto al rifiuto assoluto di un’esperienza che, in questo modo, viene “vissuta” sulla propria pelle.
Per uno spettatore assistere ad uno spettacolo teatrale permette di visualizzare concretamente un’azione violenta, malvagia. Il processo di “simulazione incarnata“, grazie alla presenza dei neuroni specchio, riproduce ciò che avviene sul palcoscenico, favorendo l’immedesimazione e personificazione. Lo spettatore diventa, così, quasi protagonista della scena. Grazie all’intimo rapporto attore-spettatore, il teatro (soprattutto tragico) avvicina l’azione al pubblico, per poi allontanarla: chi guarda, comprendendo intimamente l’azione violenta, è portato al distaccamento da sé, ad una sorta di purificazione.
Per l’attore, il procedimento è lo stesso, ma potenzialmente superiore: interpretare un personaggio lontano da sé, violento, omicida, ne consente inevitabilmente un distacco. Grazie al processo di identificazione egli è portato a saper giustificare, fisicamente e psichicamente, le azioni di un personaggio malvagio. Essendo in grado di visualizzare in prima persona gli effetti e le conseguenze delle azioni scellerate del suo personaggio, la consapevolizzazione del male nella realtà aumenta, rendendo l’attore un uomo più scaltro e, oserei dire, migliore.
Aristotele, Poetica, 6, 1449b 24-28, trad. di M.Valgimigli.