Ha fatto molto discutere la decisione di Donald Trump di far uscire gli Stati Uniti dagli accordi sul nucleare con l’Iran, accordi che erano stati siglati nel 2015 dal suo predecessore Barack Obama insieme ai Paesi del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e la Germania. La decisione è stata presa unilateralmente, cioè non è stata concordata con gli altri partner, ma non si può certo dire che è giunta improvvisa o inaspettata.
Già in campagna elettorale Trump aveva tuonato contro l’accordo sul nucleare iraniano. L’aveva fatto più che altro per calcoli elettorali interni: tutta la sua campagna infatti è stata giocata sul mettere in luce la disastrosità della politica estera del suo predecessore democratico, troppo arrendevole verso i nemici dell’America e troppo interventista laddove invece avrebbe dovuto tenere fuori gli USA da scenari in cui i loro interessi non erano direttamente in gioco. America First è stato lo slogan che ha segnato la sua corsa verso la presidenza e il focus di queste parole, più che sulla geopolitica, è sempre stato sugli affari e il commercio: l’America e i suoi interessi finanziari vengono prima di tutto, a prescindere da qualsiasi altra considerazione di natura internazionale. Ne è logica conseguenza anche l’altro principio che ha animato la campagna elettorale di Trump: andare verso un maggiore isolazionismo degli USA, nel senso di abbandonare quel ruolo di guida morale dell’umanità che aveva caratterizzato le amministrazioni post-comuniste da Clinton in poi, racchiudendo in sé idealmente un po’ tutti gli avversari di Trump, sia i democratici come Clinton e Obama, sia i Bush Sr. e Jr., rappresentanti dell’ala (maggioritaria) del Partito Repubblicano a lui avversa. In questa decisione di Trump non c’è quindi lo sghiribizzo di un lunatico instabile, ma una visione politica, più o meno legittima, ben nota e che trova i suoi fondamenti in questioni essenzialmente di politica interna e di ricerca di consenso elettorale.
Del resto sono ben noti i problemi che le democrazie hanno in questo senso, cioè la difficoltà di dar vita a politiche estere di ampie vedute e non limitate alle contingenze elettorali immediate, e questa decisione di Trump ne rappresenta un ottimo esempio. Un’altra questione che ha sempre fatto discutere i politologi (anche se, a ben vedere, è un problema costitutivo della democrazia) è il ruolo che in essa hanno i mass media: anche in questo senso sono rivelative le modalità con cui Trump ha scelto di annunciare la sua decisione. È noto che Trump abbia costruito il suo successo grazie a un sapiente utilizzo dei social media (di Twitter in particolare), ed è altrettanto noto che i media mainstream gli abbiano fin da subito riservato una narrazione ostile a causa del duplice intreccio della difesa corporativa (l’epistemologicamente ridicola idea del “giornalismo obiettivo”) e del progressivismo connaturato alle élite intellettuali e di potere: da questo intreccio è nata la mitologia delle fake news, una problematica che è sorta essenzialmente per criminalizzare il successo di Trump sui social media (quando Obama vinceva le elezioni americane usando in maniera altrettanto brillante e spregiudicata i social media, questo problema invece non si poneva). In realtà sarebbe molto riduttivo pensare che basta twittare a caso messaggi politici per avere successo: Trump è stato prima di tutto (ed è sempre rimasto) un personaggio che ha costruito la sua fama, più che sui successi imprenditoriali e finanziari, sulla popolarità raggiunta grazie a programmi televisivi di successo come Miss USA, The Apprentice e WWE Wrestling.
Proprio con una logica da serialità televisiva sta portando avanti la sua politica estera e interna: spesso il suo agire politico sembra segnato dalla ricerca di cliffhanger. Da qui sembrano nascere gli annunci, pieni di suspense, di imminenti decisioni: anche in questo caso, così come sulle politiche migratorie e la risposta agli attacchi chimici in Siria, da settimane si rincorreva la voce di un’imminente decisione, prima posticipata e poi alla fine anticipata. Ma nella strategia politico-mediatica di Trump c’è anche la ricerca di svolte improvvise, come la recente decisione di incontrare Kim Jong-un dopo anni di insulti personali, che sembravano portare verso una guerra nucleare. Non c’è quindi da pensare che la partita con l’Iran sia definitivamente chiusa: le prossime puntate potrebbero riservare sorprese.