“La fame dello Zanni”, agli albori della Commedia dell’Arte

Era il 1969 quando Dario Fo presentò Mistero Buffo, testo che, immediatamente, diventò il suo capolavoro. Destando preoccupazioni e critiche – composto di una serie di monologhi riguardanti brani dei Vangeli apocrifi e della vita popolare di Gesù – il testo esemplifica al meglio la maestria di Fo. La durezza e quotidianità di temi così lontani diventa un celeberrimo esempio di quel “teatro popolare”. La fame dello Zanni, monologo parte della sezione “Grammelot“, spicca per la sua consistenza terrena, l’attaccamento alle passioni. Proprio l’autore lo definisce “Il Grammelot più antico”, poiché ha come protagonista Zanni.

Il prototipo di tutte le maschere della Commedia dell’Arte, padre di Arlecchino, Brighella, Stenterello, Sganarello ecc… però, a differenza di quasi tutte le maschere che hanno nomi e comportamenti inventati, questo ha un’origine reale.

Come spiega Dario Fo, infatti, il nome “Zanni” fa riferimento al soprannome dato ai contadini del nord Italia (soprattutto bergamaschi e bresciani) e significa, letteralmente, “colui che ha fame”, una fame insaziabile, eterna e violenta. L’esibizione avviene, come preannunciato, in Grammelot, una lingua inventata da Fo a scopo mimetico. L’obiettivo è, infatti, quello di dar voce ad un personaggio popolare, ignorante e rozzo, sopraffatto dalla fame e dai bisogni primari e, di conseguenza, impedito nell’utilizzo di un volgare bergamasco. La lingua è, perciò, ricca di differenti allocuzioni dialettali e costituita da un registro fonico sterminato: “una vera e propria scarica di suoni gutturali con aspirate e grugniti”.

Zanni, preso da una fame devastante, cerca un modo per procurarsi cibo. La sua foga carnale ricorda, inevitabilmente, la ruvidità del servo e l’impulso primario che comanda qualunque movenza della maschera di Commedia dell’Arte. Dario Fo non utilizza la maschera in scena ma, al contrario, sfrutta al massimo la potenza espressiva del viso. La sua impressionante deformazione facciale, infatti, rende egli stesso una maschera. La sua fisicità è posta completamente al servizio dell’esecuzione: nessuna parte del corpo può non partecipare all’eterna foga del personaggio più rude del teatro, più vicino alla primitività e all’animale.

Dario Fo compie un doppio capolavoro, poiché accompagna alla scrittura letteraria sublime una messa in scena così viva e terrena. La lingua fantastica e, a primo impatto, incomprensibile, appare estremamente chiara sul palcoscenico, così mimetica e rappresentante un’intera società storica. Come lo stesso Fo spiega nel prologo:

Vedrete, miracolo! Che dopo un po’, con meraviglia, riuscirete a intuire tutto… anche quello che io non pensavo di dovervi dire.


FONTI

Lozanni

CREDITI

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