Un racconto di Alessia Guzzi
Penitenziario del Terzo Distretto. Registrazione XXIII, estratti rilevanti. Osservazione del soggetto: R. J. Radley. Agente in servizio nell’ala destra del Penitenziario.
La rilevazione è messa a vostra disposizione dalla Società Gibson per l’Archiviazione Psichica.
Abbiamo una curiosità morbosa per gli scheletri nell’armadio degli altri.
Questo mi disse mia madre, una domenica mattina, davanti al notiziario delle otto. Aveva il viso stanco. La ricordo seduta in poltrona nella nostra vecchia casa, le rughe sulla sua fronte perennemente aggrottata erano diventate così profonde che sembravano campi arati e pronti alla semina.
Non dormiva molto, in quel periodo. Era diventata paranoica. Continuava a ripetere che il Nuovo Sistema di Governo ci avrebbe portato via tutto, anche le mutande. Vogliono sapere tutto, diceva, puntando il dito contro il televisore, con le vene del collo gonfie, vogliono sapere ogni singolo dettaglio di ognuno di noi per capire qual è il modo migliore di schiacciarci come insetti.
Il ricordo riaffiora oggi, mentre osservo il detenuto della cella numero 2084 che si sveglia, guarda il vassoio delle pillole nutritive con cui abbiamo sostituito i suoi pasti solidi e decide di lanciare tutto in aria.
Le compresse saltano e poi piovono sul pavimento come coriandoli, mentre grida:
«fatemi uscire, stronzi!»
Penso a mia madre, in questo momento, perché aveva ragione lei.
Se fosse ancora viva, probabilmente sarebbe in una di queste celle, condannata per
Pratica del Pensiero Deviante. È questo che succede quando provi a pensar male del Sistema: ti sbattono in una scatola per topi da laboratorio. Ti levano il piacere di masticare del cibo normale, ti piazzano una cimice addosso e rubano il contenuto del tuo cervello. Ascoltano i tuoi pensieri, li registrano e li analizzano. Vogliono scoprire quali siano i processi psichici su cui possono intervenire per trasformare tutti in una massa di marionette obbedienti. S’insinuano come formiche nel tuo sistema nervoso e succhiano informazioni. Succhiano, succhiano, succhiano, fino a che di te non resta che un guscio vuoto.
È un bene che sia morta prima che le nuove leggi entrassero in vigore.
Dovrei esserci anche io in una di queste celle, a fracassarmi la testa contro le pareti d’acciaio come quel povero cristo della 2084. David Thompson è il suo nome.
Ho solo avuto più fortuna di lui e una scintilla di furbizia. Ho evitato di finire in miseria e ho passato la selezione del Sistema solo perché ho tenuto il mio cervello lontano dai Pensieri Devianti con gli stimolatori cerebrali. Droghe che si trovano facilmente in città, se si conoscono le persone giuste.
Il funzionamento degli stimolatori è semplice: una pillolina rosa al mattino, per tenere la mente concentrata su una gamma di pensieri ben definita, pensieri che il Sistema ritiene innocui. E una pillola bianca per la notte, per controllare il materiale di scarto del cervello, quella roba che ricompone gli elementi dell’inconscio e li trasforma in mostri ad otto teste elettroniche con una telecamera su ogni fronte. O in un governo che controlla ogni tappa della tua vita, riducendoti ad un criceto che gira a vuoto in una ruota. Cose del genere. Cose pericolose per il Sistema.
Prendi la pillola bianca e sogni un’isola caraibica, spiagge bianchissime, il sole che ti scalda le guance e la sabbia che scorre granello dopo granello tra le dita.
Se sei fortunato e se la pillola è buona, il sogno ti culla e ti tiene al caldo per tutta la notte.
Con la droga scadente, invece, non sempre il processo funziona a dovere. Mi è capitato di comprare da un ragazzino inesperto. Lo stimolatore notturno agiva solo fino ad un certo punto, poi i sogni si facevano frammentati. In ogni caso, era efficace abbastanza da tenermi il cervello pulito per ogni controllo psichico a cui sono stato sottoposto dal Sistema. Non avevo un briciolo di paura, mentre mi sistemavano gli elettrodi sulle tempie e la macchina di rilevazione cognitiva cominciava a ronzare. Sapevo con matematica certezza che il led dello schermo si sarebbe illuminato di verde, segnalando la calma piatta del mio cervello, scartando anche il più infinitesimale dubbio che potessi essere un anarchico.
È così che ho trovato un lavoro.
Se mi vedesse ora mia madre, le verrebbe un infarto. Mi direbbe che sono un venduto ed evidentemente lo sono. La verità è che non sarebbe potuta andare in nessun’altra maniera. O lavori per loro, o finisci nella Discarica del Distretto. E quello non è un posto in cui si può sopravvivere, lo sanno tutti. Si muore nel giro di poco, nella Discarica, e si muore male, come animali. Nessuno vuole correre il rischio di sentire l’odore della disperazione umana che si respira laggiù, questo è ovvio… ma dev’esserci un motivo se della gente sceglie di auto-esiliarsi.
E l’ansia scatenata da questo pensiero ricorrente mi corrode lo stomaco ogni giorno di più, sempre più velocemente, mentre resto a guardare Thompson che deperisce mentalmente. Un passo alla volta verso l’impotenza cerebrale. In alcuni momenti in cui raggiungo picchi di paranoia con cui spavento me stesso, guardarlo mi dà inquietudine.
Era un uomo rispettabile, prima di cominciare a bestemmiare contro il Sistema. Questo lo so perché Mac lo ripete un minuto sì e l’altro pure. Non so come si possa finire in quel modo, continua a dire, non capisco proprio per quale motivo l’abbia fatto. Ma il motivo non c’è. Non uno logico, almeno.
Un giorno ti svegli e ti sta tutto stretto, dalla camicia con gli elettrodi per il controllo dello tuo benedetto stato fisico, alla pubblicità che lentamente ti convince che hai bisogno di un assistente robotico che si occupi dei tuoi bisogni sessuali, oltre che della tua casa. Dicono sia meglio lasciar perdere i rapporti umani, ormai. Gli assistenti robotici sono più accondiscendenti, più inclini alle perversioni. Sono giocattolini seducenti e con il “sì” sempre pronto sulle loro labbra perfette.
Mac ne ha uno, dice che se dovesse rompersi non saprebbe più come vivere. Sembra felice, con il suo assistente robotico; non credo che gli manchino veramente le donne. Quello che gli manca sul serio è un figlio, ma quello non è un gran problema.
Se proprio vuoi un figlio, ci pensa il Sistema: congeli lo sperma, trovano l’ovulo adatto, il primo disponibile, e il gioco è fatto. Senza troppi drammi, sei un padre – o una madre – perfettamente cosciente della tua scelta e delle tue possibilità. Tutti felici e contenti. Non ci sono incognite o imprevisti, in questo modo. Il Sistema non ammette niente che non sia calcolato o premeditato.
Qualche anno fa, però, la gente ha cominciato a divertirsi un po’ troppo con questa storia della Programmazione, e il numero delle nascite è crollato. Nessuno faceva figli, nessuno li voleva. A quanto pare, si arriverà al deposito obbligato del materiale da riproduzione prima del compimento dei trent’anni e, se proprio non vuoi occuparti di un bambino, ci penserà il Sistema a crescere le persone del futuro. Piccoli umani perfetti.
Il Sistema ha una soluzione per tutto.
Se sono rimasto buono nel mio bozzolo di indifferenza, è solo grazie alla droga. Senza quella sarei finito come Thompson. Il problema è che in servizio non posso più farmi e il cervello comincia a tradirmi.
Ho provato a darci un taglio. Cerco d’impormi su me stesso ogni volta che i pensieri prendono il sopravvento, ma gli stimolanti mi hanno rovinato. La mia testa va a ruota libera.
Cerco di non cedere alle domande, mi concentro su quello che sto facendo (compilare lo schedario dei trattamenti, controllare i passaggi dalle celle alla sala di monitoraggio e dalla sala di monitoraggio alle celle, ritirare i risultati degli esami giornalieri dei detenuti), ma l’attività meccanica non aiuta. Al contrario, la noia provocata da questi compiti di routine mi spinge oltre il precipizio.
Immagino che sia esattamente questo che è successo a Thompson.
Certe volte alzo lo sguardo e lo trovo seduto al centro della sua cella immacolata, le mani magre e ossute abbandonate sul pavimento come grossi ragni senza vita, e gli occhi offuscati. Lo sento sussurrare alla stanza vuota: «È tutta colpa tua. Tutta colpa tua. Tutta colpa tua.» E poi scoppia a ridere. C’è talmente tanta amarezza, in quella risata, che il solo suono mi avvelena il sangue.
Non voglio diventare come Thompson.
Vorrei chiedergli se è in grado di indicarmi l’esatto momento in cui ha capito che cosa stesse diventando, il momento in cui ha capito che il Sistema lo avrebbe ritenuto un pericolo da espellere dal suo organismo. Vorrei chiedergli se pensa che esista un modo per evitare di assecondare i dubbi.
La risposta mi spaventa.
I pensieri di stamattina dovrebbero farmi sentire in colpa. Questo è un dato di fatto.
Gli educandi del Sistema t’insegnano sin da bambino a riconoscere le crisi. Ti indicano il modo più opportuno per affrontare e arginare il problema, prima che vaghe riflessioni confuse si trasformino in un Pensiero Deviante.
Conosco la procedura. Avrei dovuto rivolgermi ad un Centro di Assistenza Psichica affinché uno dei volontari potesse aiutarmi. Non l’ho fatto. Ho immaginato le parole meccaniche dall’altra parte del telefono, la voce calma, fin troppo calma, quasi inumana, che ripete a tutti i cittadini le stesse frasi. Ho immaginato me stesso, come vedendomi dall’esterno del mio corpo: per il Centro, per il Sistema, sono un caso a cui applicare un protocollo. Niente di più, niente di meno. Anche questi sono pensieri per cui dovrei sentirmi in colpa.
Nel pomeriggio registro il compimento del trecentesimo trattamento psichico a cui è stato sottoposto Thompson. Sta tornando nella sua cella in questo istante. È più pallido del solito e le sue guance sono così scavate che posso vedere distintamente la forma dell’osso zigomatico sotto la pelle tesa del viso.
È calvo, quasi del tutto. Quando sono arrivato qui aveva capelli folti e una barba scura invidiabile. Nessuno voleva oltrepassare le sbarre per raderlo e al detenuto non era permesso farlo da solo. Una volta hanno provato a mandar dentro un assistente robotico: Thompson aveva tentato di farsi ammazzare da lui.
Per qualche motivo, sono sicuro che la mancanza di peli sul suo corpo sia dovuta alla durezza dei trattamenti a cui viene sottoposto. Non so bene in cosa consistano, non ho accesso alla sala, ma Mac racconta spesso di quanto il pensiero delle urla disumane di quell’uomo lo tenga sveglio di notte. Una mente singolarmente morbosa potrebbe provare quella curiosità che cresce spontaneamente nei confronti dell’orrore. Lo stesso genere di sentimento che ti spinge a fissare a lungo le macerie che si lasciano dietro le tragedie.
Quando il detenuto passa davanti al mio cubicolo – ammanettato, tenuto per le braccia da due agenti, la testa che ciondola in avanti come staccata dal resto del corpo –, la cucchiaiata di budino alla frutta che ho appena portato alle labbra assume la consistenza di qualcosa di masticato e sputato direttamente nella mia bocca. Mi dà la nausea.
L’involucro colorato del mio pranzo iperproteico e ipervitaminico diventa offensivo. Lo stesso atto del mangiare davanti a quell’uomo mi fa sentire infinitamente piccolo e stupido. Butto via tutto senza neanche preoccuparmi del controllo di fine turno. Di questo passo, il Sistema mi sbatterà fuori da qui. Devo contattare il Centro di Assistenza.
Mac è venuto in mio aiuto al momento giusto. Lascia il suo cubicolo il tempo necessario per andare al bagno e, dal momento che ci siamo solo noi di guardia nell’ala destra, si ferma a scambiare due parole.
Credo di aver ripreso il controllo quasi del tutto. Parlare con lui è la cosa che più mi ricorda il contatto umano. Mi dà un senso di normalità scambiare chiacchiere, informazioni inutili, voci, notizie, pettegolezzi. È una sensazione ingannevole, ma riesce comunque ad infondermi una piccola dose di tranquillità.
«A lavorare qui dentro c’è da diventar matti», mi dice Mac, sorridendo.
«Sei anche tu un po’ fuori di testa?»
«Stai scherzando? Questo posto è un inferno. Dovresti venire al circolo ricreativo a fine turno. Aiuta, sai?»
«Non mi piacciono tutti quei giochi di logica.»
«Non potrai essere peggio di Kingston. Quello lì non ci prova neanche. Penso sia l’ultimo nella classifica generale di intelligenza, al circolo. Ha solo il vuoto tra le orecchie, te lo dico io.»
A questo punto dovrei sorridere. E lo faccio. Il faccione oblungo e allegro di Mac ricambia la cortesia.
«Ci penserò, Mac.»
Quello che è appena avvenuto è uno scambio abituale, un terreno tranquillo in cui muoversi. Mac non fa domande personali. I suoi discorsi non si avventurano mai in astrazioni pericolose, non s’interrogano sui massimi sistemi e non toccano frontiere filosofiche. Questo suo modo di fare, la sua espressione mite, gli occhi privi di profondità, la sua voce pacata sono come un emolliente per la mia mente. Mi lasciano fluttuare in uno spazio di pensiero in cui posso illudermi che quello che mi sta succedendo non sia nulla di grave. Riesco quasi a convincermi che si tratti solo di crisi passeggere, in fin dei conti.
Mi piace credere che anche Mac, nel buio della sua camera da letto, un istante prima di addormentarsi accanto al suo assistente robotico o proprio poco prima di farci sesso, si ricordi di quanto sia liberatoria un’ammissione di paura, di quanto siano affascinanti le sfumature del dubbio.
È un’illusione che dura poco, però. Una voce dal profondo mi dice che Mac non è come me. Mac non dubita mai. Per il Sistema, Mac è perfetto.
È trascorso abbastanza tempo da quando ho iniziato a lavorare al Penitenziario per cominciare a distinguere quali sono i giorni buoni e i giorni cattivi di Thompson.
Oggi non è una giornata tranquilla, per lui. Misura la cella con falcate lunghe e veloci, si tortura la pelle delle braccia e del collo. Quando cadono su di me, i suoi occhi scatenano una sorta di paura primitiva che non riesco a controllare. A tratti ho l’impressione che stia per aprire la bocca e accusarmi di essere suo complice.
«È tutta colpa tua, James,» ripete in continuazione, invece, puntando l’indice contro il corridoio vuoto. La sua voce è rotta, viene fuori a fatica. Parla come se raschiasse via le parole dal fondo della gola. «Il piano lo hai ideato tu. Hai deciso quando. Hai deciso dove. È colpa tua se siamo qui. È tutta colpa tua, James. Tutta colpa tua.»
Ogni suo crollo psichico corrisponde all’affiorare di frammenti del suo passato. È una dinamica che si è verificata con tutti i detenuti “speciali” che sono stati sottoposti ai trattamenti.
Il deterioramento psichico attraversa tappe ben scandite e distinguibili: perdita dei ricordi immediatamente precedenti all’arresto; rimozione delle informazioni sul proprio ruolo nel Sistema; isolamento di dettagli specifici del passato che il detenuto rivive ciclicamente e intorno ai quali costruisce successivi percorsi di pensiero per scivolamento associativo.
Thompson, d’altra parte, rappresenta un’eccezione. Un missile impazzito talmente tanto fuori traiettoria da non essere più rilevato dai nostri radar di conoscenza. Ovviamente ha attraversato ogni fase prevista, una dietro l’altra, in successione perfetta. Osservare da vicino il suo peggioramento mi ha dato la sensazione di guardare al microscopio la riproduzione di un batterio: il processo è veloce, inevitabile, affascinante. Ciò che non rientra nella norma sono le particolari modalità di rielaborazione del suo passato.
Un appunto rilevante sul suo caso è la tendenza a visualizzare l’oggetto del suo ricordo come se fosse qualcosa di concreto. La mente di Thompson evoca un uomo, una persona deceduta più di cinque anni fa prima di essere arrestata – James Dever. E il detenuto interagisce con la sua allucinazione.
Nessuna relazione documenta quest’anomalia, questo effetto collaterale inspiegabile.
«Mi sono lasciato convincere da te,» sibila Thompson, agitando un pugno tra le sbarre. «Eri tu a dire che dovevamo rifiutarci di farci controllare la testa dal governo. Eri tu a dirmi di liberarmi di questo dannato micro-chip, James.» Smette di gesticolare contro il vuoto e porta due dita dietro la nuca. In quel punto, immagino ci sia una cicatrice malformata, causata da un’estrazione non autorizzata del rilevatore di pensiero.
Istintivamente porto una mano dietro l’orecchio: con la punta delle dita, appena sotto l’epidermide, avverto la durezza del mio microcircuito. Un rettangolo di mezzo centimetro appena. Mi chiedo quanto sia doloroso incidere e strappare. Mi chiedo come si possa sbarazzarsene, poi.
Decido che la Direzione dovrebbe tener presente quanto oltre si siano spinte le allucinazioni di Thompson. Probabilmente sanno come farlo smettere. Devono farlo smettere.
Sto quasi per toccare l’icona azzurra tra i contatti sulla scrivania interattiva, quando Mac si sporge oltre il suo cubicolo alla mia sinistra.
«Fossi in te lascerei perdere,» dice.
«Sta peggiorando. Non penso che saranno in grado di cavare qualche altra informazione da un cervello ridotto in quello stato.» «Da quando sei diventato un ricercatore, Radley?» Il suo sguardo è vagamente ironico.
«Vanno informati. Il nostro lavoro è osservare i detenuti e fare rapporto.»
«Il nostro lavoro consiste nel compilare un modulo in cui non sono ammesse considerazioni personali.»
Lo dice esattamente come farebbe un cadetto che recita a memoria il regolamento del Penitenziario. Voce incolore, espressione neutra, nessuna insinuazione di fondo nelle sue parole. Riporta la pura e semplice verità.
«Lascia perdere. Dimenticati di Thompson,» aggiunge.
Con il suo distacco emotivo rispetto a quello che succede davanti ai nostri occhi,
Mac mette a nudo qualcosa di spaventoso. Come si fa a lasciar perdere? Come posso dimenticarmi di qualcuno che marcisce proprio qui, proprio adesso? Come faccio a levarmi dalla testa il modo viscerale e inquietante in cui io riesco a capire le motivazioni di un criminale?
Vorrei dire ad alta voce: questa cosa mi sta uccidendo. Il Sistema mi sta uccidendo.
Mac attraversa la sala comune fissando il bicchiere di energizzante che stringe nelle mani. È la prima volta che vedo formarsi una ruga di espressione sulla sua fronte.
«Dovresti fare una pausa. Prenderti delle ferie,» dice senza guardarmi.
Mi passa per la testa di raccontargli dei sogni pesanti che faccio, sogni da cui mi sveglio con il fiato corto. Sono crudeli, mi trascinano nel buio; sono così densi da lasciarmi stordito per tutto il giorno, in un modo molto diverso dagli effetti degli stimolanti che prendevo una volta.
Voglio raccontargli di quante paure senza volto siano nascoste negli angoli del mio appartamento e di come mi aggrediscano, quando non sono a lavoro.
Resto cauto, però. La fiducia non è un lusso che posso permettermi. E poi i nostri scambi cominciano ad avere un retrogusto fastidioso. Mac è l’unico collega con cui sia riuscito a scambiare più di un saluto. E allora perché, se è l’unico vero contatto umano che mi sia rimasto, la sua presenza comincia ad irritarmi? È troppo razionale nel suo modo di affrontare il lavoro. Non vacilla neanche alla vista delle torture a cui sono sottoposti i detenuti, o si impedisce di farlo. Le sue reazioni sembrano calcolate, poco umane. Forse, è solo l’idea che non riesca a vedere quello che vedo io a farmi impazzire.
Thompson è entrato in una fase bizzarra. Adesso passa tutto il tempo seduto davanti alle sbarre, e guarda un punto fisso nel corridoio con uno sguardo pieno di disperazione. I suoi occhi grigi non colgono le figure degli altri detenuti che sfilano tra le celle per raggiungere le sale di monitoraggio, in attesa dei trattamenti. Sta lì seduto e guarda. Rifiuta le pillole. Mi aspetto che da un momento all’altro la sua pelle diventi così sottile da lasciar intravedere lo scheletro. Non è rimasto molto altro di lui.
Mac distoglie la mia attenzione da quello spettacolo macabro schiarendosi la voce.
«La procedura del trattamento psichico per i reclusi ad osservazione speciale è cambiata. Scrivi Trattamento di Proiezione nei rapporti dei detenuti della cella 104,
997, 1678 e 2084.»
Sembra imbarazzato, nel dirlo.
«Non guardarmi in quel modo, Radley. Te l’avevo detto che i ricercatori avevano tutto sotto controllo… sarà una nuova tecnica di controllo del pensiero. Stavano solo sperimentando.» Solo sperimentando.
«Di che si tratta?»
«Non importa quello che fanno in sala di monitoraggio. Devi solo cambiare la denominazione dei trattamenti.»
«Che cos’è un trattamento di proiezione?»
«Guarda Thompson e capiscilo da solo.»
«Lo stanno torturando.»
«Lo stanno studiando, Radley. Stanno analizzando il suo cervello per capire come evitare che altra gente finisca come lui. Magari stanno lavorando ad un aggiornamento del micro-chip. Ci stanno facendo un favore.»
Voglio alzarmi e colpirlo per farlo stare zitto. Voglio ridurre la mia dannata scrivania interattiva in un ammasso di inutili frammenti elettrici colorati. Non ho bisogno di un Centro di Assistenza che mi dica che il mio cervello è in sovraccarico da stress, che possono trovare il modo di farmi stare più tranquillo. Ho bisogno di sapere quanto in profondità si debba tagliare per strappare il micro-chip. Dove ha nascosto il suo Thompson, dopo la rimozione? Voglio sapere quanto tempo ci ha messo la polizia per trovare lui e James Dever.
«Avevi ragione tu,» dice Thompson all’improvviso, spalancando gli occhi e facendomi sussultare. «Mi dispiace di non averlo capito prima, mi dispiace, James.
Mi dispiace…»
Avverto i movimenti di Mac che lascia la sua postazione e viene a scuotermi per la spalla. «Avanti, Radley. Concentrati e fai il tuo lavoro. Il controllo del rilevatore di pensiero è oggi. Torna in te.» Avrò il tempo di salutare mia madre al cimitero?
Gli occhi grigi di Thompson incontrano i miei. Per la prima volta, sembra che stia guardando proprio me. Per la prima volta, ho l’impressione di poter condividere con qualcuno il peso di tutte quelle domande che non posso più ignorare.
«Avevi ragione, James. Il Sistema uccide. Dovevo capirlo prima,» dice. Dovevo capirlo prima.
2084 è un racconto di Alessia Guzzi, vincitrice della prima edizione del contest letterario ‘La Voce dei Millennials’, indetto da Lo Sbuffo