“Bisogna essere molto forti per amare la solitudine;
bisogna avere buone gambe
e una resistenza fuori dal comune; non si deve rischiare
raffreddore, influenza e mal di gola; non si devono temere
rapinatori o assassini; se tocca camminare
per tutto il pomeriggio o magari per tutta la sera
bisogna saperlo fare senza accorgersene; da sedersi non c’è;
specie d’inverno; col vento che tira sull’erba bagnata,
e coi pietroni tra l’immondizia umidi e fangosi;
non c’è proprio nessun conforto, su ciò non c’è dubbio,
oltre a quello di avere davanti tutto un giorno e una notte
senza doveri o limiti di qualsiasi genere”.
Pier Paolo Pasolini
“Bisogna essere molto forti per amare la solitudine” è con questo semplice verso che Pasolini apre il suo frammento dedicato alla solitudine. In queste poche parole fissate sul foglio come una sentenza inconfutabile o come una sorta di dichiarazione di poetica è già possibile sentire tutta l’eroica rassegnazione del poeta ad un amore difficile, quello per una compagna senza volto e senza fiato: la solitudine.
La solitudine appartiene all’individuo di ogni tempo, d’ogni epoca ed ogni luogo e la si percepisce sempre allo stesso modo. Lei, con il suo volto inespressivo, gli occhi languidi e la camminata flemmatica è sempre pronta ad entrare nella vita di qualunque essere, accompagnandolo nelle sue giornate spente. Quieta e silenziosa s’aggira fra la folla rumorosa e trasforma una presenza in un’assenza.
La solitudine incombe sulla vita delle persone senza fare distinzioni: s’annida nei personaggi più affermati della società, sia in quelli di chi non ha più nulla da perdere. Entra nelle dimore, nei letti, nelle locande e nelle strade. Si pensa che non abbia voce, ma invece grida ed urla sempre a denti serrati emettendo uno stridulo sibilo che di fatto non si può udire, s’avverte solo negli occhi di chi la possiede come abitudinaria consorte. Alcuni artisti hanno voluto coglierla, ammirarla e studiarla realizzandone i più intimi e malinconici ritratti.
Uno fra i primissimi scovatori della solitudine è stato Edgar Degas che, innamorato da sempre della chiassosa vita presente negli interni parigini, finalmente posa lo sguardo su una scena unica ed emblematica.
Un clochard ed una prostituta dagli abiti sgualciti che, seppur siedano uno accanto all’altra, appaiono lontanissimi fra loro e la folla che anima il locale. Immersi nei loro pensieri si isolano dal frastuono che li circonda. Dinnanzi alla donna, sul tavolo di marmo senza piedi, si trova il bicchiere colmo di un liquido verdastro che dà il titolo al dipinto. L’assenzio è un liquore amaro di colore verde aromatizzato con menta e anice, divenuto particolarmente popolare nell’Ottocento in virtù del suo basso costo e delle sue presunte doti inebrianti e allucinogene. L’atmosfera sfavillante riflette solo le ombre dei due personaggi esiliati da Degas in una posizione eccentrica, quasi marginale: anche l’impianto compositivo del dipinto, dunque, sottolinea il loro disperato isolamento.
Più diretto e sfacciato è stato l’introverso e misantropo pittore belga, James Ensor, la cui carica innovativa – a cavallo della stagione simbolista e pre espressionista – condizionerà futuri stili artistici.
Ensor si fa portavoce di tutte quelle persone che, come lui, provano solitudine camminando tra la massa composta più da fredde maschere che da volti socievoli. Nell’opera infatti l’artista contrappone all’intensità del suo volto la grottesca presenza di impassibili maschere esotiche, dalle smorfie caricaturali o dalle sembianze animalesche. L’artista e l’individuo restano sempre più isolati, nell’impossibilità di specchiarsi o di entrare in dialogo con altri: è solo.
Ancora più profonda e cupa è la descrizione di questa angosciante condizione di vita lasciatoci dal norvegese Edvard Munch all’interno del suo “Fregio della vita”: una raccolta di opere legate tra loro da un comune filo rosso dove Munch racconta l’esistenza umana con le sue fragilità che l’artista divide in quattro macro sezioni: la nascita dell’amore, la fioritura e la dissoluzione dell’amore, la paura di vivere ed infine la morte. Il tema della solitudine è concentrato nelle tele della penultima sezione. Qui Munch si rappresenta sia come personaggio coraggioso, in grado di camminare controcorrente a costo dell’emarginazione e dello scherno, sia come individuo vittima della solitudine stessa, una solitudine che lo porta ad un improvviso senso d’angoscia capace di trasformare uno splendido tramonto in un incubo intollerabile.
È nel suo grido che l’artista ripone la più forte e cruda critica nei confronti della società, una società distratta e non curante del prossimo (che non è poi così diversa da quella odierna): Munch rappresenta l’ansia provata per i mille ostacoli che ciascuno deve superare nella propria esistenza, mentre gli stessi amici continuano a camminare tranquillamente, incuranti di questo sgomento che fa sentire tutti così disperatamente soli.
Superando gli anni Novanta dell’Ottocento, il mondo comincia ad accelerare follemente per via delle innovazioni febbrili che hanno reso la gabbia della realtà, più dorata e allo stesso tempo più stringente ed il tutto è stato poi segnato dai traumi della Prima Guerra Mondiale e dell’ascesa dei totalitarismi segnando la nascita della grande depressione.
Prima che fra le strade e i mezzi pubblici gremiti di gente, la solitudine incombe sulle tavole delle famiglie comuni che sono state dipinte da Felice Casorati.
La tavola è uno degli elementi ricorsivi del teatro pittorico di Casorati: è lo spazio attorno a cui dispone la presenza di commensali muti e pensosi. È uno dei luoghi in cui il pittore esprime la vita materiale e la sostanzialità delle cose. Queste “mense” declinano i sentimenti e le relazioni e le atmosfere sospese e silenziose. Nel quadro un’elegante donna gravata dalla pesantezza delle sue palpebre è assopita. La tavola è pronta per gli invitati al convivio, ma nessuno arriva.
Dagli anni Trenta del Novecento si comincia a soffrire di una solitudine incolmabile, legata al graduale ed inesorabile crollo delle aspettative in un futuro migliore. Questo vuoto interiore è diventato il soggetto dell’arte del maestro del silenzio, il vero fondatore della rappresentazione della solitudine: Edward Hopper.
Noto anche come “il pittore dell’incomunicabilità”, Hopper è famoso soprattutto per la capacità di ritrarre il senso della solitudine nella società americana contemporanea. In ogni suo dipinto fissa un particolare momento emblematico di una situazione. I suoi dipinti rappresentano quello che appariva già evidente nell’America del primo Novecento: il senso di vuoto, di alienazione, di grave incomunicabilità soprattutto nelle classi medie delle grandi città.
FONTI
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