In quest’epoca di migrazioni di massa si sente sempre più spesso parlare di multiculturalismo. Ma altrettanto frequentemente in questi discorsi compare anche il termine interculturalità. Spesso li si considera dei sinonimi. Ma è davvero così? Le due parole hanno proprio lo stesso significato o piuttosto rappresentano visioni del mondo non esattamente identiche?
Il multiculturalismo viene spesso confuso con l’ovvia constatazione che oggi sono molte le culture che abitano e popolano l’Italia. Il punto però non è questo: il multiculturalismo è una concezione delle particolari relazioni che devono avere queste varie culture, cioè una costruzione ideale di come si dovrebbero rapportare tra loro. A livello politico-sociale si tratta di considerare ogni cultura presente su un dato territorio come portatrice di istanze che reclamano una propria autonomia, in un modo che porta alla costituzione di comunità quasi autonome che finiscono per condividere solo uno spazio comune, ma non un’appartenenza e un’idealità collettiva. In un simile paradigma a trionfare è la particolarità. L’unico spazio che può essere condiviso è quel vuoto che dovrebbe dare un’uguale dignità a ogni cultura. Il problema è che questo vuoto è esso stesso una cultura particolare, anche se non lo si vuole ammettere. Ne sono esempi emblematici Francia, Olanda e Inghilterra, che, pur avendo costruito il proprio modello di integrazione multiculturale sulla laicità (con tutti i suoi corollari religiosi, politici e sociali), hanno poi scoperto con sorpresa che quel vuoto, che avrebbe dovuto far sentire ognuno rispettato e tutelato nella propria identità, in realtà è stato una fucina di radicalizzazione, con numeri sorprendenti di foreign fighters partiti da questi cosiddetti paradisi di tolleranza per unirsi al fondamentalismo islamico, e banlieu che vivono nell’odio.
Il multiculturalismo patisce lo stesso problema che una disciplina come l’Antropologia culturale sta faticosamente cercando di affrontare: il sapere antropologico, nato con l’ambizione di poter individuare quel terreno neutro in cui qualsiasi cultura potesse trovare spazio e comprensione, ha dovuto prendere atto negli ultimi anni che non esiste quella sorta di vuoto filosofico, ma anzi una simile idea è proprio l’ultima e la più compiuta espressione dell’ambizione particolare di una precisa cultura, la modernità occidentale, con la sua pretesa di essere l’unica vera cultura perché la sola ad aver scoperto e fondato tutto il suo sapere sulla razionalità naturale.
Di fronte agli evidenti limiti del multiculturalismo, più promettente appare l’approccio interculturale, che presuppone il confronto e lo scambio tra le culture (anche ammettendo la possibilità di legittime e reciproche critiche) e si pone il problema dell’individuazione di criteri di cittadinanza e partecipazione alla collettività. Presuppone un’idea di identità in cui ogni cultura si lascia interrogare dalle altre culture con cui condivide il territorio, per costruire uno vero e proprio spazio condiviso che attraversa le varie specificità. In questo senso è inter-culturale, laddove il multiculturalismo si limita a giustapporre.
Indubbiamente può esserci il rischio della perdita di identità o dell’assimilazione (melting pot), ma questa possibilità è in ogni caso molto più consapevole rispetto a quella cappa sempre più oppressiva che è connaturata a una super cultura fintamente neutrale e inesistente come il multiculturalismo: anzi spesso è proprio questa la causa di fenomeni di rigetto così violenti come il fondamentalismo, che non trova altri modi rispetto alla violenza cieca per affrontare una cultura che non si palesa. Il modello migliore resta l’Alto Medioevo: popoli diversi e culture diverse furono in grado di aprire un canale di dialogo culturale e politico in cui antico e moderno, straniero e romano, potessero trovare una nuova sintesi interculturale; un ottimo esempio di meticciato culturale in cui ognuno riuscì a restare se stesso diventando consapevolmente qualcos’altro.