«Avevo voglia di urlare, volevo gridare, volevo stracciarmi i polmoni, come Papillon, con tutta la forza dello stomaco, spaccandomi la trachea, con tutta la voce che la gola poteva ancora pompare: Maledetti bastardi, sono ancora vivo!»
Per chi non lo sapesse, la trachea in questione è quella di Roberto Saviano. E queste sono le ultimissime righe di Gomorra.
Non parleremo di questo libro, non qui: è troppo intimo per essere raccontato da un esterno, lo mortificheremmo; questo libro va letto da cima a fondo, va capito, compreso, metabolizzato. Perché, indipendentemente dal parere che ognuno di voi si è fatto su questo scrittore, Gomorra, purtroppo, è un libro che racconta uno spaccato di vita italiana, una realtà; ed è per questo che chiunque si senta di appartenere a questo Paese dovrebbe leggerlo. Badate bene: chiunque-si-senta-di-appartenere-a-questo-Paese: non solo gli italiani.
In questi giorni Roberto Saviano è stato querelato da Matteo Salvini. “Mi diffama”, ha affermato il Ministro. Vero. Saviano ha diffamato Salvini e Salvini, a sua volta, ha minacciato Saviano quando, in uno slancio di creatività -perché solo così possiamo definirla- ha proposto che gli venisse tolta la scorta.
Noi ci occupiamo di letteratura, e di questo dovremmo scrivere; dovremmo parlare di Calvino o di quanto l’Orlando Furioso abbia segnato un nuovo orizzonte nel rapporto autore-committenza. Lo abbiamo fatto e continueremo a farlo; non è nostra intenzione occuparci di politica né spetta a noi decidere chi abbia torto e chi ragione. Questo ragionamento è corretto, ma merita una riflessione. In primo luogo, chiunque abbia studiato la letteratura è naturalmente portato a pensare, riflettere, farsi un’opinione, a osservare i tempi che cambiano e, forse, è legittimato a dare un parere. In secondo luogo, se a essere chiamato in causa è uno scrittore, ecco che possiamo sentirci liberi di parlarne senza tradire la categoria in cui siamo stati inseriti ma anzi, rendendole un (ultimo) omaggio.
Per questo, al tramonto della nostra carriera come redattori de Lo Sbuffo, non potevamo non scrivere un articolo su Roberto Saviano. E davvero, non ci interessano le opinioni politiche o personali: quelli sono affari vostri, noi non vogliamo entrarci. Ciò che vogliamo onorare di questo personaggio è unicamente la sua penna, il suo modo di scrivere, di osservare, di comunicare, di raccontare.
In Vieni via con me, Roberto Saviano stila una lista di dieci cose per cui vale la pena di vivere. Al primo posto, la mozzarella di bufala aversana. All’ultimo,
«Dopo una giornata in cui hanno raccolto firme contro di te accendere il computer e trovare un’email di tuo fratello che dice “sono fiero di te”.»
Se la prima ha fatto breccia nel nostro cuore, se non altro perché riguarda la nostra origine -chiunque dovrebbe avere una nonna da cui essere chiamato “nennè”- la seconda ci ha fatto riflettere.
E allora, da letterati e non da politici, da amanti delle figure retoriche ma non dell’ ars oratoria, da studiosi della parola e non delle opinioni, con i paraocchi, senza implicazioni morali, attendendoci a giudicare unicamente la più spoglia e asettica grammatica, la disposizione delle parole, la sensazione di libertà e armonia che solo un Bel libro può regalare a chi legge, ci sentiamo di dire che anche noi, Roberto, siamo fieri di te.
«Se il tuo mestiere è scrivere, fare televisione è come cercare di respirare sott’acqua»
FONTI
Saviano, R., Gomorra, Milano, Mondadori, 2006.
Saviano R., Vieni via con me, Milano, Feltrinelli, 2011.
Copertina