C’è Pavese e Pavese. E il Pavese dei “Dialoghi con Leucò” è un grande, grandissimo Pavese. Quasi irriconoscibile.
“I dialoghi” sono tutti belli, qualcuno di più, altri di meno. Ne abbiamo scelto uno non per ordine di importanza né di bellezza, lo abbiamo scelto perché si coniuga perfettamente con quello che vogliamo dire, ossia ci fa comodo per sostenere la nostra tesi e forse peccare, anche questa volta, di presunzione.
Il mistero, ossia un dialogo tra Dioniso e Demetra. Lui il vino, lei il pane. Due dèi talmente annoiati della loro condizione che per due pagine -due fittissime, intensissime pagine-, non fanno altro che parlare di noi, degli uomini. Ed è qui che subentra l’autore. Cioè: i miti greci sono (o dovrebbero) essere noti a tutti. A chiunque da qualche parte nel cervello si accenderebbe una lampadina, foss’anche flebile e fioca, qualora sentisse nominare Edipo, Achille, Patroclo, Orfeo, Euridice, Medea. E gli intenditori conosceranno a menadito le storie, i retroscena, le implicazioni psicologiche e morali di questi racconti. Ma Pavese va oltre. Pavese prende i miti greci, li sviscera completamente e li porta in un altro tempo: più moderno, più profondo, più simile a lui. E inventa, inventa delle scene mai esistite, dei dialoghi mai avvenuti, e li trasforma in letteratura. Ma dietro, a ben guardare, la figura dell’autore è sempre presente. L’impressione che il lettore ha è che questi personaggi siano marionette di cui l’autore si serve per spiegare a sé e agli altri la propria condizione, il proprio dolore.
Un esempio: la morte.
Non sarebbero uomini, se non fossero tristi. La loro vita deve pur morire. Tutta la loro ricchezza è la morte, che li costringe a industriarsi, a ricordare e prevenire.
E ancora:
Visto che tanto son mortali, danno un senso alla vita uccidendosi. Loro le storie devon viverle e morirle.
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Il mistero, p. 152.
Ecco, più o meno è qui che abbiamo collocato l’autore. Non nel mito, non negli dèi, ma nella morte. O meglio: nella vita degli uomini, più bella rispetto a quella degli dèi perché è a discrezione di chi la vive. Ed è questo il tema ricorrente. Il resto sono alibi, pretesti, semplici storie. Ma il motivo di questi dialoghi sta nel rapporto che l’uomo ha con la vita e quindi, inevitabilmente, con la morte. Un rapporto di dipendenza, di paura, di sottomissione ma anche di libertà, di respiro, di passione. Gli uomini sono liberi di morire, gli dèi no. Infelici entrambi: gli uomini attivamente, gli dèi passivamente. Gli uomini fanno i conti ogni giorno con quello che hanno e che potrebbero perdere, danno valore alla propria vita e sanno che qualora questa diventasse claustrofobica potrebbero semplicemente abbandonarla, ma prima di farlo combattono, si muovono, sbagliano e sbattono la testa contro i propri errori. Gli dèi non sanno nulla. Hanno davanti a sé un orizzonte infinito da riempire, e proprio per questo non fanno niente. Sono impotenti, immobili, apatici.
Dov’è l’autore? Si muove. All’altezza di quest’opera, ci piace pensare che sia ancora con gli dèi: passivamente infelice, immobile, spaventato, terrorizzato dall’idea di accettare la morte come alternativa alla vita. Ma chi lo segue sa che è esattamente lì che vuole arrivare: gli basta un passo, un piccolo passo in avanti per considerare la morte come parte integrante della vita, ed essere in pace.
Demetra: […] come il grano e la vite discendono all’Ade per rinascere, così voglio insegnargli che la morte anche per loro è nuova vita. Dargli questo racconto. Condurli per questo racconto.
Dioniso: Moriranno lo stesso.
Demetra: Moriranno e avran vinta la morte.
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Il mistero, p. 153.
Ecco, questo è ciò che gli dèi non avranno mai: la morte. E allora ecco che quest’opera diventa un elogio non degli dèi e dei loro miti, ma degli uomini e della loro inconsapevole, scoordinata, disordinata e maldestra libertà. Una libertà scontata, messa a tacere, nascosta, spaventosa e inquietante, ma che è lì e fa capolino quando le cose perdono colore e la vita diventa morte attiva. E solo lì, nell’attiva infelicità di una morte attiva, l’uomo può finalmente distinguersi e avere la propria rivalsa sugli dèi, condannati per tutta la vita a una morte passiva.