L’India era considerata senza dubbio la perla dell’impero britannico, fonte vitale della sua prosperità. Fino al conflitto del 1914 non aveva rappresentato grosse difficoltà per la madrepatria. Le rivendicazioni inizialmente erano finalizzate solo a una migliore integrazione delle élite indiane nell’amministrazione coloniale. Poi il contributo portato nella Prima guerra mondiale, in particolare il reclutamento di indiani da inviare ai vari fronti, fece in modo che aumentassero le speranze di ottenere maggiori vantaggi. Ma le misere riforme adottate dagli inglesi non potevano che scontentare un popolo in cerca di una libertà più estesa.
Nel 1919 scoppiarono una serie di disordini, così il viceré fu costretto a proclamare lo stato di emergenza innescando altre manifestazioni di protesta. Durante questo periodo diventò protagonista un nuovo personaggio nella scena politica indiana, Gandhi. Per lui la conquista dell’indipendenza doveva essere realizzata attraverso i mezzi della non cooperazione, o disobbedienza civile, e della non violenza. Queste potevano assumere le forme più diverse: boicottaggio dei prodotti britannici, delle scuole e della giustizia coloniale, rifiuto delle imposte, scioperi e marce di protesta. Gandhi riuscì a liberare le masse dal sentimento di inferiorità e di paura persistente che le teneva sotto il gioco britannico. Proprio per questo venne arrestato e rilasciato più volte durante le manifestazioni da lui promosse.
Le proteste e gli scontri si susseguirono per tutti gli anni venti e trenta fino a che la Seconda guerra mondiale si inserì nello scenario portando ancor più scompiglio. Nel 1942 infatti venne lanciata dal Congresso (partito politico indiano) la campagna quit india, allo scopo di ottenere finalmente la partenza degli inglesi; l’esito però fu fallimentare. Tutto cambiò quando, al termine del conflitto mondiale, i laburisti vinsero in Inghilterra e venne formato il gabinetto Attlee. Il politico inglese si mostrò fin da subito favorevole al piano per concedere l’indipendenza tanto richiesta. Tuttavia continuarono a esserci scontri tra fazioni che portarono alla creazione di una situazione inestricabile e allarmante. Date le circostanze, il governo inglese decise di ritirare frettolosamente le proprie forze e i funzionari dall’India, così da lasciare al più presto il Paese.
Il problema adesso era se lasciare agli indiani un territorio diviso, data la crescente conflittualità tra indù e musulmani, oppure mantenerne l’unità. Alla fine l’ammiraglio Mountbatten, incaricato della mediazione, si convinse dell’inevitabilità della divisione. Una commissione procedette al tracciato delle frontiere del Punjab e del Bengala, cioè i due Pakistan, che nascevano separati dall’India. Ovviamente Gandhi lottò vigorosamente per fare in modo che si conservasse un paese intercomunitario, ma dovette presto arrendersi all’evidenza. Il 14 e 15 agosto del 1947 le indipendenze divennero effettive: il Pakistan e l’India diventarono dominion indipendenti e membri del Commonwealth britannico. Nehru diventò primo ministro dell’India e Jinnah luogotenente generale del Pakistan.
L’eredità del repentino e maldestro abbandono da parte degli inglesi si fece però sentire subito. Scoppiarono ondate di violenze legate all’annuncio del tracciato delle frontiere, e anche a causa dello spostamento delle popolazioni musulmane e indù che si recavano verso i nuovi stati. Ci fu un clima di violenza generale contraddistinto da attentati, massacri, stupri, rapimenti e saccheggi. Anche Gandhi ne pagò le conseguenze, infatti il 30 gennaio 1948 venne assassinato da un fanatico indù. Ma il problema più grave da risolvere era il caso del Kashmir, stato principesco con tre quarti di popolazione musulmana ma governato da un indù. Questo territorio venne interessato dalle guerre indo-pakistane del 1965 e del 1971 ed ebbe un ruolo fondamentale nella nuclearizzazione dei due stati.
FONTI
Bernard Droz, Storia della decolonizzazione nel XX secolo, Mondadori 2006