Il Mistero buffo di Dario Fo, premio Nobel per la letteratura 1997, è un’opera teatrale in un unico atto, composta da una serie di monologhi di argomento biblico, in particolare relativi ai vangeli apocrifi e ai racconti popolari sulla vita di Gesù. L’opera inizia con un’innovativa analisi del componimento Rosa fresca aulentissima di Cielo (o Ciullo, come ci racconta Dario Fo) D’Alcamo.
I vari video della messa in scena rivelano che l’attore e autore racconta a braccio, seguendo un copione in maniera piuttosto libera; indossando indumenti appartenenti al quotidiano, che non sembrano costumi di scena, si esibisce su un palcoscenico vuoto, dotato solo di un’umile sedia di legno. Per sintetizzare e commentare il testo del monologo non abbiamo utilizzato i video, ma le trasposizioni su carta dell’opera (indicate nel dettaglio tra le fonti). Lo scritto perde la vivacità del parlato, ma consente di soffermarsi più attentamente sul contenuto. Nelle opere, comunque, troviamo un narratore che parla di se stesso in prima persona, pertanto lo stile è molto simile al recitato, ma la sintassi è ricca e articolata come in qualsiasi testo scritto.
Dario Fo denuncia la “truffa” di cui sono stati vittime gli studenti quando la poesia Rosa fresca aulentissima è stata proposta come un testo dotto e raffinato, opera di un aristocratico che sfoggia un volgare colto: niente di più sbagliato. Secondo il premio Nobel, si tratterebbe di una poesia del popolo scritta da un giullare, che peraltro tratterebbe argomenti osceni. Il più illustre artefice di tale errore sarebbe proprio Dante Alighieri il quale, nel De vulgari eloquentia, scrisse che, nonostante la presenza di qualche “crudezza”, sarebbe stato evidente che l’autore della poesia fosse una persona colta. Anche Benedetto Croce sostenne tale tesi: il popolo, infatti, non sarebbe in grado di creare ma solo di copiare, perciò soltanto una personalità colta potrebbe produrre un testo così prezioso.
Toschi e De Bartholomaeis hanno affossato tale teoria sostenendo che la poesia è a tutti gli effetti un capolavoro della letteratura medievale italiana, ma appartiene al popolo.
Ma cosa sarebbe la rosa che sboccia d’estate anziché in primavera e che tutte le donne desiderano? Non certo una fanciulla, afferma Dario Fo, perché difficilmente in una poesia medievale si sarebbe affrontato il tema dell’omosessualità femminile. Probabilmente i professori, per secoli, hanno evitato di affrontare davanti agli studenti adolescenti questa interpretazione che a loro sarebbe parsa la sola possibile, ma niente paura: la rosa è un fallo, che viene mostrato quando l’esattore alza la gamba (e dunque la gonnella) per sorreggere il libro su cui registrare le riscossioni in denaro.
I due personaggi che dialogano nel testo fingono di essere nobili e di utilizzare un linguaggio elevato, ma sono in verità appartenenti al popolo; ciò è reso evidente dal fatto che il personaggio maschile alluda alle mansioni di lavandaia, svolte dalla sua interlocutrice femminile.
Dario Fo si sofferma poi sul nome dell’autore, che non sarebbe Cielo D’Alcamo ma Ciullo D’Alcamo. I giullari infatti solevano assumere soprannomi volgari e Ciullo sarebbe uno dei tanti nomi con cui ci si riferiva al sesso maschile. Da tale nome è evidente l’estrazione popolare dell’autore. Fo chiarisce che l’opera non è stata tramandata dal giullare compositore, ma dal trovatore o dal notaio che l’ha copiata su un codice giuridico, che si è conservato più per la funzione legale che svolgeva all’epoca che per i componimenti poetici che conserva tra le sue pagine.
Segue un dialogo piuttosto volgare in cui il personaggio maschile afferma la propria invincibile volontà di congiungersi con la fanciulla, in una modalità che oggi considereremmo stupro, e la descrizione accurata dei metodi con cui la ragazza afferma di voler cercare di sfuggirgli. Dario Fo non riporta le auliche parole della poesia, ma scrive un dialogo in italiano moderno dal linguaggio fresco, colorito, in una parola: popolare. Il commediante denuncia poi una barbara pratica medievale: i ricchi nel Medioevo avevano la possibilità di scampare alla pena per stupro pagando una multa.
Dario Fo diffonde cultura facendo ridere il pubblico, fondendo un tema complesso come la poesia medievale con battute sul sesso “da osteria” (senza mai precipitare troppo nel volgare). È riuscito a demolire l’austerità della cultura universitaria e a portare la conoscenza nei teatri, sulla scia di quella straordinaria rivoluzione che si è verificata negli anni Settanta. Il suo linguaggio semplice e colloquiale, il sorriso irriverente e la straordinaria energia al fianco di Franca Rame (una brillante attrice di cui abbiamo parlato qui) non a caso lo hanno portato nel pantheon dei premi Nobel alla letteratura.
Dario Fo, Mistero Buffo, a cura di Franca Rame, Einaudi (Tascabili Stile Libero 487), Torino 1997, pp. 112-123.
Dario Fo, Manuale monimo dell’attore, con intervento di Franca Rame, Einaudi (Gli struzzi 315), Torino 1987, pp 112-123.