Morpheus

C’è un Re nell’Ade che ogni volta che tenta di bere o mangiare ciò che lo attornia non ci riesce in quanto queste cose gli sfuggono per poi tornare a tentarlo di nuovo. C’è un cane nell’Inferno che mangia tutto ciò che gli venga tirato addosso. E c’è un senzatetto all’angolo della strada che morde il marciapiede dalla fame.

Ma lui non sapeva nulla di tutto ciò o non ci pensava altrimenti non staremmo raccontando questa storia.

Lui ha tutto. E’ un avvocato di successo che non inganna la legge, o almeno non più di quanto non facciano tutti gli avvocati. Se dice due parole dolci ad una donna questa la mattina dopo molto probabilmente starà facendo colazione nel suo appartamento. Ha poco più di trent’anni ed è bello come quando ne aveva diciotto. Potrebbe continuare così e fra un pò godersi la sua pensione da riccone ingurgita-caviale alle Maldive e spendere le giornate sulla spiaggia a bere caipirinha. Ma non andrà così o non staremmo raccontando questa storia.

Una sera, più banale di molte altre a dir il vero, stava al “The Top of the Hill” con i colleghi a farsi un drink. La serata scorreva come molte altre, un gruppo cantava Frank Sinatra o Billie Holliday, qualcuno sparlava dei clienti o stava iniziando a sentire gli effetti del terzo whiskey e soda e qualcun altro tentava di farsi notare da due ragazze a un altro tavolo. Gli viene sete, vuole farsi un altro giro, va al bancone.

Appongiandocisi, notò che era estremamente pulito, non sporco e lurido come ci si aspetterebbe da qualunque storia su un personaggio travagliato, e nota qualcosa di diverso. C’è una teca alla sinistra dei ripiani con gli alcolici che non aveva mai notato. Effettivamente è raro che vada al bancone e si metta a sinistra. Ma non ci si deve focalizzare sulla teca, è assolutamente normale, ma su ciò che c’è dentro la teca. Dentro la teca c’è un ripiano con alcuni bicchieri di vetro ed un tovagliolo di lino su un piattino. Sopra di questi, che non sono nemmeno loro il centro della questione, c’è un altro ripiano con una sola bottiglia. E’ un whiskey, di una marca che non conosce. Si chiama “Morpheus”, scritto a grossi caratteri ben ricamati sulla tipica etichetta nera che attornia la bottiglia. Un attimo dopo si ritrova perso nel guardare la bottiglia. Il colore ambrato, perfetto, lo ipnotizza. Gli sembra di vedere riflessa nella bottiglia ciò che veramente c’è nel locale e chi veramente c’è nel locale. E’ come se per quella bottiglia, e solo per quella, passasse una luce vera, che rivela ciò che ognuno veramente è. Si accorge dopo un attimo di desiderare quella bottiglia più di qualunque altra cosa. Sentiva che se c’era qualcosa di cui aveva bisogno era quello. Ripreso dallo stordimento chiama il barista, questo gli si avvicina.

“Senti John, ma come è che tenete quella bottiglia lì dentro?”

“E’ la prima bottiglia che venne posta in questo bar, nessuna la beve, passa di generazione in generazione da quanto ho capito. Chiedi a Halloway per altro, in fondo è sua.”

“Grazie, John. Me lo chiameresti?”

E John lo chiama. Halloway si avvicina con l’aria trasandata di chi capisce al volo i problemi della gente ma non ne può di aiutarla a risolverli o anche solo a capirli; in fondo però non è una persona cattiva.

“Ehi Halloway, come va?”

“Bene, dimmi, che ho da fare, il locale è pieno stasera.”

“Dimmi di quella bottiglia, quella nella teca.”

“E’ la prima acquistata dal bar, ce la passiamo fra gli Halloway di padre in figlio da quasi cento anni. Quel deficiente di mio figlio finirà per farsela cadere dalle mani, non è nemmeno capace di tenere una mazza da baseball, figuriamoci quella bottiglia.”

“Ne voglio un bicchiere Halloway.”
“E perché mai? E comunque no.”

“Non lo so perchè, ma sento solo che la voglio.”

“Allora è semplice: no.”
“Non capisci allora. Lo devo avere.”

“Ancora una volta: perchè?”

“Perche sì, come te lo devo dire?!”

“Allora è no.”
“Quanto vuoi Halloway? Sai che ho molti soldi.”

“Non è in vendita e non lo sarà mai. Aspetta che passi a mio figlio e la faccia cadere, poi potrai berlo dal pavimento se vuoi.”

Le sue parole non erano più in grado di fermare Halloway che se ne andò a servire una coppia dall’altra parte del bancone. Il rifiuto fece crescere il desiderio in lui e la mancanza lo distruggeva. Alla fine ordinò un qualunque altro whiskey ma guardandolo all’interno del bicchiere vide che vi passava una luce del tutto ordinaria. Forse è colpa del ghiaccio! In uno scatto, che lo fa assomigliare più a un camionista che a un avvocato, toglie il ghiaccio dal bicchiere e lo butta per terra. La gente si gira a guardarlo. A lui non interessa. Porta il bicchiere, privo di impurità al viso e lo guarda. Passa la stessa luce che passa per i suoi occhi. Deve avere quella bottiglia.

La serata trascorre come tutte le altre, eccetto per il fatto che trascorre senza di lui e che si risvegliò da solo il giorno seguente.

Il resto di quell’anno non è necessario che sia narrato, quindi lo riassumiamo: iniziò a comprare tutte le bottiglie di whiskey che vedeva, sperperando il patrimonio che lo avrebbe portato alle Maldive con il caipirinha, alla ricerca di una bottiglia attraverso la quale passasse la stessa luce che passava nel “Morpheus”. Ah, ovviamente la fabbrica che lo produceva ha chiuso da quarant’anni e quella era l’unica bottiglia ancora in giro. Trovandosi a condividere la casa con così tante bottiglie è naturale che sia anche diventato un alcolizzato. E per di più un alcolizzato paranoico. A causa del suo atteggiamento era stato pure cacciato dal lavoro. Non ci volle molto perchè si ritrovasse sul lastrico.

Oggi lo troviamo a casa sua, la barba di alcune settimane, la camicia sbottonata e mal stirata, circondato da centinaia e centinaia di bottiglie di whiskey, vuote e piene, che continua a vedere quella maledetta luce. Purtroppo solo nei suoi ricordi. In un ultimo scatto d’ira prende la prima bottiglia che trova e la scaraventa contro il muro, poi con la seconda e così via, senza curarsi dei vicini che bussano alla porta per il rumore che sta facendo. La mattina dopo la sala da pranzo non è attraversabile per colpa dei cocci, ma quel giorno ha da fare. Si veste ed esce, va al “The Top of the Hill”. È solo mezzogiorno ma non gli importa. Fissa la bottiglia e si accorge di avere capito cosa fare. Gli fanno notare che sono cinque minuti che sta fermo sulla porta di ingresso e spaventa i clienti. Esce. Passa il resto del giorno in giro, non vuole tornare a casa. Arriva la sera, il bar sta chiudendo, è tardi ormai, se sono andati tutti e se ne sta andando pure Halloway. Aspetta un pò e si dirige alla porta sul retro. Non ci mette tanto ad aprirla, ha visto molta televisione da ragazzo, poco dopo è dentro. Si avventa sul bancone e poi alla teca. Si ferma un attimo a guardarla, il suo desiderio, ciò che lo ha corrotto, ciò di cui aveva bisogno è lì. Apre la teca e prende in mano la bottiglia, la alza, la guarda, quella luce vi passa attraverso. Un attimo dopo suona l’allarme. Il suono stordente, che lo riporta alla realtà si propaga per tutto il locale e sicuramente anche di fuori. Il rumore lo blocca, è in catalessi. Guarda la bottiglia, la vuole ancora, si lancia fuori dal locale. Capisce di essere stato davvero troppo lento quando vede davanti a lui Halloway con la canottiera ed i jeans appena infilati. Non ha più l’aria trasandata, ma ha l’aria di chi vuole ucciderti. In quello che gli era sembrato meno di un istante Halloway gli è addosso, lo spinge per terra, gli sale sopra ed inizia a colpirlo, a massacrarlo di pugni sul viso. Prima di svenire vede un’ultima volta la bottiglia. E’ normalissimo whiskey. A farlo svenire effettivamente non sono le botte ma il pensiero di quanto fosse stato stupido. Non aveva mai avuto bisogno di quella bottiglia, aveva bisogno di qualcosa che lo riempisse, perché solo ora si rendeva conto di quanto fosse vuota la sua vita prima.

Si risveglia in una cella, con le mani sporche del suo stesso sangue e tossisce.

“Ti sei svegliato.”

E’ Halloway a parlare, dalla cella accanto.

“Ancora non capisco perche volessi così tanto quella bottiglia. Fa pure schifo.”

 

 

 

credits

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