La mia esperienza di tirocinante infermiera mi ha permesso di scoprire la caotica città romana nelle primissime ore del mattino, prima ancora che sorga il sole ad illuminarne le bellezze. Il turno di mattina inizia alle sette, il che significa che la sveglia deve necessariamente suonare, e soprattutto deve essere prontamente spenta, alle cinque, massimo cinque e trenta. Il mio sonno è inconsciamente meno profondo quando so che il mattino dovrò alzarmi presto, e credo sia per questa ragione che, quasi sempre, prima che la sveglia mi faccia sussultare di soprassalto con il suo martellante “drin drin”, apro gli occhi in risposta al melodico fischiettare di qualche pettirosso particolarmente mattiniero.
Dopo una preparazione che non può portarmi via più di mezz’ora, esco di casa e mi metto alla guida. I lampioni sono tutti ancora accesi, come la maggior parte delle persiane sono ancora chiuse. Soltanto sulla facciata di qualche casa noto un piccolo quadrato luminoso avvolto dalle tenebre circostanti, indice che qualcun altro come me è già sveglio. Il rumore del motore risuona particolarmente e va ad infrangere un silenzio quasi perfetto; dopo un po’, non ci faccio più caso e lascio che i miei pensieri si perdano nel buio che mi avvolge.
I fari illuminano la via Flaminia: saluto il quartiere di Prima Porta, che rivedrò quando il sole lo avrà già illuminato da diverse ore. Non sono più sola, e man mano che mi avvicino al centro della città sono sempre di più i motori che si uniscono al mio nel mettere definitivamente fine a quel silenzio che ancora avvolge i quartieri più periferici. Al bivio tra viale di Tor di Quinto e Corso Francia, sterzo leggermente a sinistra ed imbocco quest’ultimo. La luce rossa dei semafori contrasta nettamente con il giallo dei fari e dei lampioni. Qualche semaforo non è ancora attivo, e si limita ad emettere una flebile luce gialla ad intermittenza. Continuo a percorrere Corso Francia, passo davanti
al McDonald’s che ora apre alle sette del mattino, perché offre anche la colazione. Svolto leggermente a sinistra verso viale Maresciallo Pilsudski. Sulla destra, la clinica Bios dove spesso eseguo le analisi di controllo. Proseguo invece sempre dritta, ed imbocco viale dei Parioli, che, solo ad orari insoliti come questo, non è ancora inondato e reso difficilmente praticabile da macchine parcheggiate in doppia o tripla fila, e che di recente è diventato tristemente famoso per la vicenda delle baby squillo.
Nel lasciare viale dei Parioli, continuando a proseguire dritta, mi ritrovo su viale Liegi e, paralleli al mio percorso, si snodano i binari del tram. Quelle rotaie vengono attraversate dal 3, che trasporta i cittadini da piazzale Ostiense a Valle Giulia, e dal 19, che serpeggia tra piazza dei Gerani e piazza Risorgimento. Eccolo, ne arriva uno. Ci fermiamo
entrambi al semaforo. È il 19. Poche insonnolite persone riempiono il vagone, alcune si stropicciano gli occhi che non si sono ancora abituati alla luce neon. Fuori, ancora il buio, interrotto qua e là da qualche bar in procinto di aprire ed iniziare a servire caffè forte ai primi clienti del mattino. Scatta il verde e l’autista del tram parte, io al seguito.
Con uno stridio poco piacevole, quel mezzo di trasporto che racchiude in sé un non so che di romantico, si ferma alla fermata “Buenos Aires”. Io proseguo e lo vedo rimpicciolire sempre più dallo specchietto retrovisore, finché anche la luce del suo singolo faro viene inghiottita dal blu notte che precede l’alba, mai così ardentemente attesa.
Senza che me ne sia neanche accorta, viale Liegi si è tramutato in viale Regina Margherita, e la mia destinazione si fa sempre più vicina. Mi chiedo se il sole sarà sorto quando sarò arrivata. Attendo lo scattare del verde dell’ultimo semaforo che mi ritrovo a fronteggiare nel tragitto di andata: svolto a destra su via Giovanni Maria Lancisi e parcheggio l’auto. È indubbio che il maggior vantaggio di andare a lavoro ad orari così insoliti sia quello di non trovare traffico e non avere difficoltà nel parcheggiare l’automobile.
Mi appresto ad attraversare viale Regina Elena fino a raggiungere il primo ingresso utile per accedere al Policlinico Umberto I, che si staglia contro il freddo blu scuro del cielo quasi minaccioso. C’è già qualcuno che lavora, preparando le bancarelle per allestire il mercatino che ingombra viale Regina Elena fino alle sette di sera circa, creando un bizzarro e forte contrasto tra il caldo fragore del mercato e il triste ambiente ospedaliero. Due realtà così vicine, ma allo stesso tempo così incredibilmente lontane e diverse.
Raggiungo il mio ingresso: davanti a me, leggermente a destra, prende forma il reparto di pediatria, ma io proseguo dritto, verso la clinica delle malattie infettive e tropicali. Proprio mentre sto varcando il portone che dà accesso al reparto, il sole fa capolino e in un attimo illumina il Policlinico, il mercato, i binari del tram, la via Flaminia, Prima Porta. Il buio che l’ha fatta da padrone nelle ore precedenti lascia spazio al piacevole calore dei luminosi raggi solari. Non posso far a meno di guardare l’orologio: sono le sei e trentasette. Mi lascio scappare un sorriso, ed entro nella clinica.