Creature tentatrici, divise tra il cielo e il mare e detentrici di una conoscenza proibita. L’arte racconta un mito al femminile, dove il sapere incontra la seduzione.
In una seduttiva fisionomia antropomorfa, la sirena è una creatura ammaliatrice. La sua arma è il canto, che incatena i marinai all’ascolto. È la melodiosa sinfonia che accosta la sirena alla forma di donna-uccello nella mitologia greca. Le sirene compaiono nel canto XII dell’Odissea, quando Ulisse si incatena all’albero maestro della sua nave per fuggire al tranello delle creature. L’ingegnoso stratagemma gli permette di frenare non tanto il suo desiderio sessuale, ma la sua sete di conoscenza. Ulisse è curioso, ma sa che l’inganno della sirena sta nel promettere una conoscenza che l’uomo non possiede. Il desiderio conduce alla morte. L’inseguimento di una creatura che inizialmente ha di seducente solo la voce. La sirena infatti nasce come rapace, probabilmente dall’accostamento con i gabbiani che i marinai sentivano in lontananza durante il viaggio
Il medioevo cambia direzione e fa della sirena una creatura marina. La donna assume una valenza peccaminosa, in una veste a una o due code. La creatura è collocata in maniera simbolica sui capitelli delle cattedrali romaniche a scopo ammonitore. È però anche uno sfizio decorativo, dettato dall’aspetto esteticamente migliore che assume la sirena come donna-pesce. La sua nuova fisionomia compare dal VII secolo. Tale cambiamento è la conseguenza di più fattori. L’abbandono del riferimento all’arpia nella mitologia greca. L’accoglimento dei miti dell’Europa settentrionale. Il rifiuto della fisionomia rapace della sirena, accostabile alla figura dell’angelo. Ecco dunque che le nuove sirene contemplano l’orizzonte dagli scogli, giocano e nuotano nel mare. Si innamorano.
È Hans Christian Andersen, con la famosa fiaba “La Sirenetta” (1837) a diffondere il mito di un amore romantico tra uomo e sirena. La pittura del XIX secolo enfatizza la sensualità femminile della creatura. Soprattutto i preraffaelliti, come John William Waterhouse e Dante Gabriel Rossetti dipingono fanciulle aggraziate, dai lunghi capelli fluenti. Il pettine, con cui le sirene si acconciano sugli scogli, diventa simbolo di sessualità. Non è più solo con il canto, ma anche con la bellezza che le sirene ammaliano i marinai. Un amore, però, destinato a sprofondare negli abissi. Una relazione impossibile, che si concretizza in un solo bacio, simbolo dell’incontro tra uomo e sirena. Lo dimostra il dipinto di Gustav Wertheimer “Il bacio della sirena”. Oltre al lato romantico, il XIX secolo porta con sé un messaggio morale. La sirena simboleggia quel piacere carnale da cui l’uomo deve necessariamente discostarsi se vuole perseguire il progresso della civiltà. L’amore fulmineo che si cela dietro la tentazione ingannatrice.
Il Novecento rielabora la figura mitologica e ne dà una lettura innovativa. Oltre l’arpia, oltre la creatura marina seducente. La sirena di Magritte in “L’invention collective (1934)” è un pesce morente sulla spiaggia. Non c’è sensualità, non c’è bellezza, ma solo abbandono. Lo stereotipo seducente ottocentesco scompare, lasciando un pesce nel suo silenzio con lo sguardo perso nel vuoto. Incapace di adattarsi ad un mondo diverso dal suo. Sul tema dell’adattamento gioca anche Chagall, che riprende la femminilità della creatura nell’opera “Sirena e poeta (1967)”. In un’atmosfera onirica e fiabesca, la sirena diventa unicamente un espediente, un simbolo per descrivere l’artista che non riesce ad integrarsi nella società.
Donne immortalate nella storia attraverso l’arte. Le sirene sono ingannevoli, ma anche innamorate, sono rapaci e pesci, sono cantanti e silenziose. Ogni artista ha saputo cogliere una diversa sfaccettatura del loro essere. Una creatura mitologica poliedrica dove le sensazioni effimere umane si incontrano con l’eternità del mito.