Il paesaggio, in quanto genere pittorico autonomo dedicato alla raffigurazione del puro scenario naturale, si afferma tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo, cioè nella fase di transizione dal Manierismo al Barocco. Presente da sempre nell’iconografia dell’arte in un ruolo subordinato al tema principale (di solito rappresentato come semplice sfondo utile a contestualizzare una storia) il paesaggio raggiunge in modo progressivo una totale autosufficienza espressiva.
La pittura di paesaggio ha importanti premesse nell’arte dei secoli precedenti: valga per tutti il significato naturale della pittura fiamminga quattrocentesca o in quella veneta, da Bellini a Giorgione a Tiziano. La sua piena affermazione coincide – oltre che con il crescente apprezzamento da parte del pubblico – con la nascita di una trattatistica specifica che, a partire dal Seicento, comincia a riflettere sulle sue prerogative.
Essa teorizza una prima distinzione tra paesaggio ideale (anche noto come ‘classico’ o ‘eroico’) e paesaggio realistico e fantastico, a cui più tardi si aggiungerà “la veduta”, intesa come rappresentazione fedele di un luogo reale. Questa schematica classificazione favorisce – come era già accaduto per la natura morta – il radicarsi nell’ambito accademico (soprattutto in Italia) del pregiudizio riguardo una presunta inferiorità del paesaggio rispetto alla più nobile pittura di storia e di figure. Contro tale atteggiamento agisce l’inclinazione di artisti e collezionisti che determinarono la definitiva affermazione del genere.
La più profonda origine della pittura di paesaggio ha origine nella seconda metà del Cinquecento a Roma, vivace crogiolo di stili e tendenze artistiche, a opera di pittori nordici che affascinati dai resti della città eterna – dalla sua campagna costellata di monumenti e dal suo grandioso passato – ne ritraggono con intenti documentaristici gli aspetti più significativi in una variegata serie di immagini.
Uno fra questi è il fiammingo Paul Bril che, giunto a Roma nel 1582, realizza i primi dipinti di paesaggio “puro”, cioè svincolati dai temi sacri, mitologici e allegorici, valorizzando il ruolo e l’ampiezza dello scenario naturale anche nelle storie sacre e nella decorazione di interni. Nelle tele e nei piccoli oli su rame di Brill, in cui traspaiono evidenti legami con la tradizione fiamminga e olandese, l’immagine di natura è resa in modo veritiero ma al tempo stesso fantastico e sorprendente, combinando elementi presi dalla realtà, descritti con eccezionale aderenza e minuzia di particolari. Si tratta di un impianto compositivo “artificiale” in cui la profondità prospettica è raggiunta tramite l’uso di direttrici diagonali e spezzate, di precipizi, pendii e radure resi con una tavolozza modulata su digradanti tonalità verde-azzurro.
Una decisiva accelerazione in senso realistico nella concezione della natura, è segnata dal tedesco Adam Elsheimer, giunto a Roma nel 1600 dopo un soggiorno a Venezia (dove ha avuto modo di studiare l’arte di Tiziano e di Jacopo Bassano). Nei suoi piccoli dipinti su rame il paesaggio si veste di nuovissimi accenti lirici secondo una visione intima e contemplativa, che intende l’uomo non più come protagonista e signore dell’universo, ma come spettatore rapito dalla misteriosa bellezza dello spettacolo naturale. La pittura di Elsheimer sa cogliere con emozionata verità – come nella bellissima “Fuga in Egitto” – il fremere delle chiome degli alberi, il trascolorare delle nuvole, l’incanto di un cielo stellato e i riflessi del sole nell’acqua di un fiume.
Una svolta determinante nell’evoluzione del genere è impressa nell’arrivo a Roma, nel 1594, di Annibale Carracci che, a contatto con la cultura classica e la soleggiata campagna romana, dà origine al cosiddetto paesaggio “ideale”: una ricostruzione mentale di una natura pacificata e armoniosa in cui si realizza il sogno di una perfetta unione con l’uomo.
Durante il Seicento sulla scia di Annibale, il paesaggio “classico” romano conosce una lunga e felice stagione di artisti come il Domenichino, Claude Lorrain, Nicolas Poussin e Gaspard Dughet.
Claude Lorrain, forse il più grande paesaggista di ogni tempo, giunto a Roma nel 1613 dipinge per quasi cinquant’anni la campagna romana che indaga in ogni suo aspetto studiandone le variazioni con il trascorrere delle ore del giorno e delle stagioni nelle più varie condizioni atmosferiche. Nutrito di un bucolico senso virgiliano Lorrain riscopre l’incanto del paesaggio naturale, costellato di alberi e ruscelli, di sottoboschi e profondissimi orizzonti: è una sublime poesia della natura.
Nei suoi paesaggi Lorrain segue quasi sempre lo stesso schema compositivo che prevede una scura quinta teatrale (gli alberi svettanti contro il cielo dorato) la cui ombra si proietta sul primo piano, un piano intermedio con delle figure ed infine altri due piani – posti uno dietro l’altro – che conducono lo sguardo verso l’orizzonte luminoso. Il tutto è collegato per mezzo del colore, la luce ed elementi occasionali ed il risultato è una freschezza d’intuizione ed immediatezza di approccio al motivo, che permette una commossa immedesimazione con il soggetto naturale.
Assai diverso è il paesaggio di un altro grande maestro francese, Nicolas Poussin, che è invece dato da un’elaborazione intellettuale e una sofisticata costruzione razionale. Nei suoi amplissimi paesaggi la realtà è trasfigurata da una costante volontà di controllo formale che non lascia alcun spazio alla fantasia, regolando ogni singola parte entro un disegno unitario. Queste caratteristiche spiegano la volontà dell’artista di dar vita ad un paesaggio “storico ed archeologico” interpretato come sfondo per episodi mitologici o biblici sospesi in un tempo indefinito.
Figura imprescindibile per la nascita del paesaggio romantico ottocentesco è il pittore-poeta Salvator Rosa, che con i suoi paesaggi “di fantasia”, raffigura scenari naturali intesi come luoghi immaginari in cui proiettare i sentimenti e le inquietudini umane, privilegiando dunque gli aspetti più drammatici e di cupa bellezza.
FONTI
Studio da parte dell’autrice