Paola Masino (1908-1989) oggi è una scrittrice quasi dimenticata, che viene citata per lo più in relazione al suo compagno di vita, Massimo Bontempelli. Nonostante la sua figura intellettuale non si limiti alla corrispondenza sentimentale con lo scrittore e benché specialmente nel secondo dopoguerra fosse attiva collaborando con numerosi giornali, conducendo vari programmi radiofonici e scrivendo anche libretti d’opera, dopo la sua morte i suoi lavori scivolarono subitaneamente nell’oblio; solo recentemente si è tentato di restituirle una meritata notorietà attraverso gli studi del suo archivio conservato presso l’Università della Sapienza di Roma.
Sembra opportuno e anche proficuo ricordare questa scrittrice analizzando l’opera più emblematica, scritta durante gli anni Trenta e con vicissitudini editoriali tormentate (fu infatti censurata dal regime fascista in quanto controcorrente rispetto alle ideologie promulgate): Nascita e morte della massaia.
La storia è semplice, benché venga sviluppata in modo complesso. Lo stile di Masino in questo senso è peculiarissimo, poiché capace di spaziare tra le atmosfere surrealiste e oniriche, certamente per l’influenza delle tendenze artistiche dell’epoca, e una lucida e spietata ironia. Il linguaggio è curatissimo sia dal punto di vista della scelta lessicale sia da quello dell’equilibrio sintattico, e proprio al minuzioso labor limae sicuramente è dovuta la patina lirica che pervade l’opera.
L’intreccio è semplice, in un certo senso emblematico. Non tratta di un individuo specifico, la massaia infatti non ha un nome proprio e la sua vita non sembra essere collocata in uno spazio tempo ben definito. L’accento viene posto sugli obblighi sociali oppressivi cui è condannata dal suo sesso: nascere donna, infatti, significa avere il destino di moglie e di madre sulle spalle. La scelta di smussare la collocazione spazio temporale e quella di privare del nome la propria protagonista trova riscontro nella volontà di proiettare la vicenda su uno sfondo universale: Masino parla della condizione generale di ogni donna, indipendentemente dall’epoca storica e dalla classe sociale di appartenenza. Tutte infatti sono accomunate dal medesimo fato: annullare la propria soggettività per badare alla casa e prendersi cura della famiglia.
La critica dei costumi sociali retrogradi dell’epoca fascista è condotta egregiamente nella scissione interna della protagonista. Ella sa bene che entrare nel mondo significa indossare una veste che non le appartiene e che corrisponde a ciò che gli altri (la madre soprattutto, ma anche più genericamente la società intera) si aspettano da lei. E così dopo un’infanzia iscritta nel segno dell’anarchia più ribelle, trascorsa al riparo di un baule “pieno di brandelli di coperte, di tozzi di pane, di libri e di relitti di funerali”, in cui paradossalmente è libera di essere se stessa, al compimento del diciottesimo anno decide di entrare a far parte del vivere sociale, seppur consapevole dell’annientamento spirituale e morale che questo comporta.
In breve tempo viene sistemata con un vecchio zio, e così ha inizio la sua vita di moglie: la casa, gli oggetti che contiene, le piante che crescono sono i suoi figli. In tal modo ella realizza quanto ha imparato durante la giovinezza dalla madre. Pulire, controllare che tutto sia al suo posto, sfociando nella maniacalità insita in un’azione vuota perché fine a se stessa.
In questa rappresentazione della condizione femminile, che alcuni critici hanno definito sintomo di un ”femminismo ante litteram”, le riflessioni sulla scissione identitaria che si crea all’interno della protagonista sono molteplici. È da evidenziare innanzitutto la percezione secondo cui si è davvero liberi nella solitudine, non intesa come una solitudine meramente fisica o sociale, quanto esistenziale. La massaia sente che può essere libera soltanto privandosi del corpo che la contiene, lo stesso che le permette di stare al mondo. La sua soggettività, il suo impulso alla vita e alla scoperta viene ostracizzato dalla prigione soffocante ma necessaria delle carni che la ricoprono. Il ruolo sociale che le è destinato si trova perfettamente fuso con quello biologico: cioè quello di procreare e allevare la prole.
Dall’altro lato, invece, le pulsioni e la caducità proprie di quel corpo la riportano infine nella carreggiata predisposta: il ballo in cui viene presentata all’alta società segna in questo senso una sorta di rito, di morte spirituale e di nascita sociale. Infatti, per la massaia, nascita e morte si equivalgono poiché entrambe comportano una perdita del sé; non vi è alcuna risoluzione a questa drammatica impasse.
Una scrittura di difficile accesso e allo stesso tempo tagliente e profonda, capace di parlare al lettore moderno. Una prospettiva certamente controcorrente da molteplici punti di vista; forse proprio per questo il nome di Paola Masino è stato quasi completamente dimenticato.
La bambina traeva la conclusione che anche lei nel suo interno doveva avere qualche cosa di cui il mondo aveva bisogno e che gli uomini, se lei non lo offrisse, le strapperanno. Il modo della rapina le era ancora totalmente oscuro, ma a quel pensiero subito nel ventre provava come se le sconvolgessero e le stringessero a manate le viscere. Allora doveva camminare in modo grottesco con le gambe rattratte. In tali momenti aveva anche la sensazione, per lei terribile, di essere immortale, di non arrivare mai, per quanto faccia, a liberarsi in modo definitivo del corpo che le hanno messo addosso.
P. Masino, Nascita e morte della massaia, Ibsn, 2009