Nel mondo dell’industria musicale, quasi sempre, gli artisti scelgono la strada meno ripida e tortuosa, proponendo progetti facilmente recepibili da parte del pubblico e che non facciano sorgere alcun tipo di dibattito. Suscitano in me un certo fascino quei pochi che, in una fase di splendore della propria carriera, e quindi disponendo delle risorse necessarie per sostenere una simile iniziativa, decidono di non prendere scorciatoie, ma anzi, con sincerità e vero amore verso il proprio mestiere, seguono quel che l’intuito creativo suggerisce loro. Per essere più concreti, citerò alcuni esempi tra i tanti, ma non tantissimi, a disposizione: Jovanotti nel 1997, dopo che nel 1994 aveva per la prima volta superato il milione di copie vendute con Lorenzo 1994, propose un album criptico e inafferabile quale L’albero, pieno di influenze africane e con pochissimi ammiccamenti radiofonici. Ancora, Fabri Fibra ad aprile 2015 uscì con Squallor, senza alcun tipo di promozione e privo di un pezzo che potesse in alcun modo essere preso in considerazione dalle radio. Infine, nel 2016, dopo due successi indiscussi come Arrivederci Mostro e Mondovisione (16 dischi di platino, singoli esclusi), decisamente tendenti al pop, Luciano Ligabue ha scritto un concept album anacronistico, che necessitava di un ascolto ininterrotto dal primo al quattordicesimo brano per essere totalmente compreso, il cui protagonista, Riko, è un lavoratore precario e pieno di problemi. In tutti e tre i casi, non esattamente il modo migliore per raccogliere larghi consensi, ma, cosa di gran lunga più importante, evidentemente ciò che consentiva loro una completa espressione in quel momento.
Se dovessi individuare colui che è stato capostipite, coerente e senza pari, di questa attitudine libertaria e avversa alle regole del mercato, penserei sicuramente a Giorgio Gaber (Milano, 25 gennaio 1939 – Montemagno di Camaiore, 1º gennaio 2003). Dopo essere diventato, negli anni ’60, un volto riconoscibilissimo in Italia al punto da fare spesso coppia con Mina nel varietà serale di Studio Uno, il cantautore milanese decise, sorprendendo pubblico ed addetti ai lavori, di abbandonare sia la TV sia il mondo della discografia, per buttarsi senza paracadute in un nuovo mondo, creato con la collaborazione di Sandro Luporini, vale a dire il teatro canzone.
In particolare, quest’anno ricorre il quarantesimo anniversario di Polli d’Allevamento. L’opera si inseriva in un percorso che aveva visto Gaber, grazie ai tre lavori precedenti, Far Finta di Essere Sani (1973), Anche Per Oggi Non Si Vola (1974) e Libertà Obbligatoria (1976), uscire come vincitore indiscusso dall’ardita partita che aveva voluto giocare. Incapace di fermarsi e per niente interessato a mantenere quella che a tutti gli effetti era diventata, magari involontariamente, una nuova comfort zone, il signor G decise di sorprendere nuovamente il suo pubblico. Come? Con uno spettacolo, pur sempre ironico, ma fortemente amaro, pessimista e “contro”. Infatti, sebbene quest’ultima parola caratterizzasse ormai l’approccio alla scrittura e all’interpretazione del Maestro, in pochi avrebbero potuto prevedere che il dito (in un periodo storico, come quello degli Anni di piombo, di forti tensioni sociali ed economiche) sarebbe stato puntato verso quell’ideologia rivoluzionaria a cui lo stesso Gaber, benché borghese, sembrava appartenere.
Giorgio Gaber è venuto a mancare quando io avevo poco più di sette anni. Questa premessa per evidenziare come, tutto quel che credo di sapere su uno dei personaggi che più mi affascina della storia del Novecento italiano, sia stato in qualche modo filtrato, o dai miei genitori che lo andarono a vedere più volte a teatro, o dalle numerose interviste viste e riviste, libri letti e album consumati.
Da quel che ho potuto capire, Gaber non si accontentava mai: penso sia necessario esplicitare questa sua caratteristica per provare a giustificare una così feroce invettiva “contro”, indirettamente, quel PC di Enrico Berlinguer che allora era il partito comunista con il maggior consenso popolare di tutta l’Europa Occidentale. “Contro” un’Italia che ancora non aveva conosciuto lo scandalo P2, che ancora non aveva fatto i conti col termine “mafia”, se non in una intenzionalmente semplicistica connotazione regionale che la circoscriveva alla Sicilia, o comunque al solo Meridione. In un momento in cui, al di là della doppia crisi petrolifera che aveva messo in ginocchio una parte del paese, a livello di diritti civili erano stati fatti dei passi avanti che, col senno di poi, non è eccessivo definire rivoluzionari.
Una giustificazione cercherò di darla nella seconda parte dell’articolo.
Il mio amico Giorgio Gaber di Gianpiero Alloisio
http://www.giorgiogaber.it