All’interno di un’organizzazione criminale, non tutti i membri vivono una vita basata sulla cieca fedeltà e sull’adempimento senza scrupoli di doveri imposti. Molte volte capita che qualcuno, dopo anni passati a compiere deplorevoli misfatti, decida di discostarsi dal mondo mafioso per collaborare con lo Stato. Leonardo Vitale (1941-1984) fu un limpido esempio di questa volontà di redenzione oltre che delle ripercussioni provocate dall’appartenenza ad un sistema mafioso.
Affiliato a Cosa Nostra nella Famiglia di Altarello di Baida (Palermo), fin da piccolo subì la forte influenza dello zio (anch’egli mafioso), il quale decise di mettere subito alla prova il suo valore. Così da ragazzo fu costretto a uccidere prima un cavallo, poi un uomo. Nel 1969 l’uccisione di un altro esponente della criminalità gli valse un incremento di prestigio, così che lo zio cominciò a rivelargli nuovi segreti sull’organizzazione, raccontandogli anche dell’esistenza della Commissione (l’organo della struttura mafiosa che prendeva le decisioni).
Il 29 marzo 1973 Vitale decise incredibilmente di presentarsi negli uffici della Squadra Mobile di Palermo, dichiarando di stare attraversando una crisi religiosa e che intendeva incominciare una nuova vita. Si riconobbe autore di due omicidi, di un tentato omicidio, di un sequestro e di reati minori. Inoltre denunciò i colpevoli di altre uccisioni e raccontò di come era strutturata una Famiglia mafiosa, spiegando l’esistenza della Commissione (di cui all’epoca le autorità non sapevano nulla). I funzionari erano sbigottiti, mai era accaduta una cosa del genere in Italia. Un magistrato inquirente invitò allora un gruppo di specialisti di psichiatria criminale al carcere dell’Ucciardone allo scopo di accertare se il “pentito” fosse sufficientemente sano di mente e credibile. Tuttavia i segni di una certa fragilità erano già evidenti.
Nello stesso anno in cui si consegnò alle autorità, durante una settimana passata in carcere perché sospettato di un sequestro di persona si cosparse con i propri escrementi. La spiegazione che diede al folle gesto era che gli serviva per differenziare le cose brutte da quelle che non lo erano. Per lui le cattive azioni erano quelle compiute in passato per conto della mafia, e non questi gesti che non potevano recare danno alle persone. Altra stranezza era che solitamente bruciava i beni acquistati con i proventi dei delitti. La sua instabilità mentale però era iniziata sin da ragazzo. Vitale infatti a quei tempi nutriva incertezze riguardo la propria virilità, pensava di essere un pederasta e accusava Dio di avergli inculcato quei complessi. Per protesta allora smise di andare a messa e scelse di affiliarsi a Cosa Nostra.
Rivelare i segreti dell’organizzazione, a parer suo, gli servì a lasciarsi alle spalle il passato e le relative angosce per ritrovare infine Dio. Malgrado ciò il suo umore peggiorò, e cominciò a procurarsi da solo tagli sulle braccia. Molto spesso andava in giro scalzo e con una barba lunga affermando di essere guarito dalla pazzia. Conclusasi la perizia psichiatrica, fu dichiarato seminfermo mentale. Ma gli esperti decisero che la sua memoria non era per nulla pregiudicata, quindi che la sua testimonianza era credibile. Nonostante questo, non venne ascoltato. Lui e lo zio furono gli unici a essere condannati al carcere nel 1977. I comportamenti bizzarri avevano minato irrimediabilmente le tesi dell’accusa. La magistratura era incapace, all’epoca, di capire e di tradurre in conseguenze giudiziarie la sua voce.
Trascorse la propria detenzione in manicomi giudiziari, finché nel 1984 ritrovò la libertà. Ma presto fu vittima della stessa mafia che aveva osato denunciare. Il 2 dicembre infatti, mentre rientrava dalla messa, venne raggiunto da due colpi di pistola alla testa. L’organizzazione criminale voleva evidentemente dare un segnale forte, visto che pochi mesi prima Tommaso Buscetta aveva incominciato a collaborare con Giovanni Falcone. Leonardo Vitale fu senza ombra di dubbio un personaggio fuori dalla norma per i suoi inconsueti comportamenti, ma forse ancor di più per essere stato il primo a portare un certo tipo di informazioni allo Stato. Va ricordato infatti che le sue rivelazioni vennero confermate in pieno da Buscetta e da altri collaboratori di giustizia. Proprio per questo Falcone e Borsellino al Maxiprocesso di Palermo del 1986 presentarono un documento che si apriva con il racconto della vicenda di Vitale, augurandosi che almeno da morto potesse trovare il giusto credito che gli spettava.
John Dickie, Storia della mafia siciliana, Laterza 2007
Pietro Grasso, Storie di sangue, amici e fantasmi, Feltrinelli 2017