“Cultural appropriation è la ridicola nozione secondo la quale essere di una diversa cultura o razza (specialmente bianca) significa che non ti è permesso adottare elementi da altre culture. Questo non fa altro che supportare la segregazione ed intralciare il progresso nel mondo. Serve unicamente a promuovere segregazione e razzismo”.
Questa è la traduzione della definizione “top” di appropriazione culturale che il celebre Urban Dictionary propone. Ma è davvero questo il significato di cultural appropriation? È così negativo questo concetto che è sempre più presente, sebbene spesso, in modo sottile e capillare?
Negli ultimi anni, un fenomeno che ha reso possibile la pratica dell’appropriazione culturale – amplificandola – è la globalizzazione, intesa come il processo secondo cui le persone e le organizzazioni aumentano le interazioni internazionali, in particolare grazie alla comunicazione e informazione tecnologica e digitale e ai commerci. Può capitare spesso di fraintendere la globalizzazione, poiché alcuni sostengono che essa condurrà alla formazione di una singola cultura, cancellandone le differenze esistenti, ma in realtà ha permesso che elementi tradizionali di molte culture di tutto il mondo potessero essere conosciuti e persino usati da altre, principalmente da quella occidentale: infatti, storicamente, l’imperialismo dell’Occidente è stato predominante dal punto di vista culturale. Perciò non è incomprensibile che un’associazione tra cultural appropriation e globalizzazione possa non essere vista di buon occhio, quando, ancora oggi, si parla di white privilege e le persone marciano pacificamente per ricordare che “Black lives matter”.
Ci può risultare utile un altro dizionario, l’Oxford, il quale definisce l’appropriazione culturale come
“L’adozione non riconosciuta o inappropriata di tradizioni, pratiche, idee, ecc di una persona o società da parte di membri di un altro popolo o un’altra società, e tipicamente più dominante.”
Questo perché il condividere, il prendere in prestito elementi e componenti di una determinata cultura o società non sempre viene fatto con coscienza e con i giusti intenti, e la linea tra appropriazione lecita ed illecita diviene molto labile. A giocarsi tutto è il contesto.
Ebbene, in paesi come la Thailandia, dove il Buddhismo è la fede più seguita, sono apparsi cartelli tradotti in più lingue in cui si chiede di non sedersi sulle sculture o di non toccare quelle più piccole nei templi poiché oggetto di culto e non, come accade nel mondo occidentale, un oggetto di design. In questo caso, la cultural appropriation genera una mancanza di rispetto nei confronti di una religione e di una cultura. La moda è un esempio lampante di come la globalizzazione abbia reso universale ogni stile, o, meglio: la moda ha reso omaggio e al tempo stesso generato proteste per l’uso che ha fatto delle proprie scelte riguardanti tratti culturali. Ricordiamo l’esempio di Marc Jacobs che, nel 2017, aveva fatto sfilare le proprie modelle con acconciature tipiche dell’Africa sub-sahariana ribattezzandole con termini occidentalmente appetibili (ad esempio, dai Bantu Knots, i “nodi dei Bantu“, ai Mini Buns, traducibile con “mini chignon” o “rotolini“).
Questo non significa che ogni aspetto di un’altra cultura diventi off-limits: il nodo della questione è non globalizzare gli stereotipi per non rischiare di banalizzare le culture stesse. Proviamo a chiederci se quell’oggetto, quella decorazione, tradizione, ecc. ha o meno a che fare con un aspetto religioso e/o culturale ancora fortemente sentito, se le persone, in passato o ancora oggi, sono state giudicate o costrette a provare vergogna per la differenza culturale, se viene venduto o pubblicizzato solo perché di moda in questo momento. Dimentichiamo tutte le possibili implicazioni negative di una cultural appropriation, e proviamo a riflettere e ad agire a favore di una cultural appreciation.