Seneca, Epistola 28: un tentativo di traduzione.

Hoc tibi putas accidisse et admiraris quasi rem novam

quod peregrinatione tam longa et tot locorum varietatibus

non discussisti tristitiam gravitatemque mentis? 

Questa la domanda che Seneca pone al suo allievo, Lucilio. Lasciamo da parte il rapporto tra questi due personaggi e anzi, lasciamo da parte i personaggi stessi. Questo articolo consisterà unicamente in un esercizio grammaticale, di traduzione. Niente stoicismi, quindi, ma solo accusativi assoluti.

(Abbiamo isolato delle singole frasi come se fossero versi; naturalmente, il testo senecano non è diviso in questo modo in quanto, essendo un’epistola, è scritto in prosa. Qui, però, i versi aiuteranno noi e voi a orientarci nell’esercizio di traduzione).

Pensi che sia accaduto solo a te e ti meravigli come di un fatto strano 

che, con un viaggio così lungo e con una tale varietà di luoghi, 

tu non sia riuscito a liberarti dalla tristezza e dalla noia?

Fin qui, niente di strano. Si parte con un accusativo assoluto, (“hoc tibi putas accidisse”), e poi una relativa introdotta da “quod”, che ha il suo antecedente nell’ “hoc” della prima riga. “Gravitatem mentis” indica, letteralmente, la pesantezza di spirito, un senso di sconforto. Qui noi lo abbiamo reso “noia” in senso senecano, quindi legato alla sua filosofia;

Animum debes mutare, non caelum. Licet vastum traieceris mare,

licet, ut ait Vergilius noster,

erraeque urbesque recedant, 

sequentur te quocumque perveneris vitia. Hoc idem querenti

cuidam Socrates ait, “quid miraris nihil tibi peregrinationes

prodesse, cum te circumferas? premit te eadem causa quae expulit”. 

 

Deve cambiare l’animo, non il cielo. Per quanto tu possa attraversare un mare vasto, 

per quanto tu possa, come dice il nostro Virgilio, 

lasciarti indietro terre e città, 

i tuoi vizi ti seguiranno ovunque tu vada. Socrate, a un tale che si lamentava della stessa cosa,

disse: “perché ti meravigli del fatto che i viaggi non ti siano d’aiuto, quando continui a portare te stesso in ogni luogo? Il male che ti incalza è lo stesso che ti ha spinto a partire”. 

 

Oltre alla struttura iniziale, con quel “licet” in anafora, è interessante il “Vergilius noster”, in quanto rappresenta l’orgoglio che un autore romano, Seneca, prova nell’identificare come romano, e quindi appartenente alla sua stessa stirpe, un poeta del calibro di Virgilio. Una sorta di patriottismo sui generis, insomma. Ed ecco, infatti, che alla riga immediatamente successiva arriva la citazione virgiliana, presa dall’Eneide, III, 72, totalmente decontestualizzata e inserita in una cornice meno tragica, ma certamente più filosofica.

Segue un altro accusativo assoluto (“miraris nihil… prodesse”), e una relativa introdotta da “quae” che ha il suo antecedente nella limitrofa “causa”.

Quid terrarum iuvare novitas potest? 

Quid cognitio urbium aut locorum? in inritum cedit ista iactatio. 

Quaeris quare te fuga ista non iuvet? Tecum fugis. 

Onus animi deponendum est: non ante tibi ullus placebit locus.

Talem nunc est habitum tuum cogita qualem Vergilius noster

vatis inducit iam concitatae et instigatae multumque habentis

in se spiritus non sui:

baccatur vates, magnum si pectore possit

excussisse deum. 

Come può alleviarti un posto nuovo? 

Come la conoscenza delle città, dei luoghi? Questi movimenti risultano inutili.

Chiedi per quale motivo questa fuga non ti aiuti? Tu scappi con te stesso.

Bisogna alleggerire il peso dell’animo: se non farai questo, non ti piacerà nessun luogo. 

Pensa che la tua situazione è uguale a quella che il nostro Virgilio

Attribuisce a una sacerdotessa invasata dal nume,

traboccante di un’ispirazione non sua: 

La sacerdotessa di dimena furiosa, 

per allontanare da sé l’azione del dio. 

 

Tutte interrogative dirette nelle prime righe, a cui poi corrisponde un’unica risposta, resa qui con una perifrastica passiva che risulta quasi come un comando: “Onus animi deponendum est”.

Per tornare, poi, al “Vergilius noster” che descrive una sacerdotessa in preda alla follia (Eneide, VI, 78-79). Ancora una volta, Seneca utilizza Virgilio non solo per dare spessore e visibilità alle sue parole, ma anche per dimostrare di avere un modello autorevole a cui rifarsi; ancora una volta, Virgilio risulta essere il modello decontestualizzato da cui l’autore, quando ha bisogno che il lettore non opponga obiezioni alle sue ipotesi, mette in scena, chiudendo una volta per tutte il discorso.

 



 

 

 

 

 

 

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