La morte di Tom Wolfe, il vuoto che lascia un eclettico critico

Il 15 maggio scorso a Manhattan è morto Tom Wolfe. Una morte che non lascia un vuoto solo nel giornalismo, ma nelle discipline umanistiche in genere.  Wolfe è stato  un personaggio eclettico: giornalista e saggista, ma anche romanziere e critico. Ruoli che ha saputo ricoprire ottimamente, stravolgendoli anche, e portando la letteratura nel giornalismo e viceversa, tanto che nel 2006 ha meritatamente ricevuto il Jefferson Lecture in the Humanities. Si tratta della maggior onorificenza del governo americano per chi ha raggiunto particolari meriti nel mondo umanistico.

Wolfe è stato un personaggio difficile da etichettare. Un dandy conservatore, ma innovatore e spesso controcorrente. Era nato a Richmond, in Virginia, nel sud delle tradizioni e delle buone maniere, ma pur mantenendovi un legame seppe adattarsi alla grande città, sia durante gli anni di Yale, che quando lavorò al Washington Post e poi al New York Herald Tribune. E’ di New York in particolare che, si innamora, tanto da viverci fino alla morte. Tuttavia seppe mantenere su di essa e la sua società uno sguardo obiettivo e critico.

Tom Wolfe

Questo mantenere le distanze pur lasciandosi coinvolgere è un tratto caratteristico del suo stile che gli ha permesso di avvicinarsi a qualsiasi lettore e trattare qualsiasi argomento. Come quando nel 1963 andò in California: era rimasto senza lavoro e doveva scrivere per Esquire sul nascente fenomeno delle auto custom; il suo stile abituale non era congeniale all’argomento, ammise di non saperne scrivere e l’editore gli disse di inviargli gli appunti. Wolfe lo fece, sistemandoli in una lettera simile a quelle che scriveva ai familiari. Nonostante lo stile baroccheggiante l’articolo tratto fu un successo.

Questa caratteristica è ben visibile nei suoi scritti più famosi. Il Falò della vanità (1987) esemplifica la critica alla società newyorkese.  Il titolo è ispirato al rogo del martedì grasso del 1497 voluto da Savanarola (il frate spinse i fiorentini a bruciare gli oggetti lussuosi) e, attraverso la caduta di un giovane trader di Wall Street durante gli anni Ottanta, il libro critica la società tra boom della Borsa e tensioni razziali, smaschera l’ipocrisia del politicamente corretto tipico del rapporto tra ricchi e poveri, e tra bianchi e neri.

Altro scritto satirico sulla società è l’articolo del 1970 per il New York Magazine. Scrisse di una serata, a cui si era imbucato, organizzata da Leonard Bernstein: nel suo lussuoso attico di Park Avenue raccoglieva fondi per i Black Panther. Scrivendo di pregiati stuzzichini domandandosi se i commensali sapessero apprezzarli e dei leader afroamericani, porta la sua satira su questo perorare cause pur rimanendo nel lusso, e conia il termine ‘radical chic‘.

I neologismi, dei quali ‘radical chic’ è il più famoso, sono appunto un altro suo vanto. Coniò anche il termine “il decennio dell’io” per definire gli anni ’70, “caro vecchio ragazzo” e “la stoffa giusta”. Non solo creò nuovi modi di dire, ma anche, con tra gli altri Truman Capote, un nuovo modo di fare giornalismo. Da lui stesso definito Nuovo Giornalismo (“New Journalism“). Un giornalismo nel quale introdusse caratteristiche letterarie: il giornalista è come una telecamera che racconta in presa diretta, così si descrive usando la sequenza scenica cinematografica, con un’attenzione a ogni minimo dettaglio coinvolto. Dallo stile in genere, ai gesti e il modo di rapportarsi con chiunque.

Fu anche fautore di un’introduzione di tecniche giornalistiche nella letteratura, quando nel 1989 affermò che si dovesse tornare al Realismo. Una tesi che continuò a ribadire negli anni, e in particolare nel 2013 aggiunse una nuova argomentazione: il momento d’oro della letteratura americana fu tra il 1893 e il 1939. Il primo è l’anno di Maggie di Stephen Crane, e l’altro di Furore di John Steinbeck; pur riconoscendo grandi opere scritte prima e dopo, quelli furono  anni resi prolifici da Faulkner, Hemingway, e Fitzgerald.

La sua solita schiettezza, che non diminuì con gli anni sempre coprendo vari generi.  Si scagliò contro l’architettura moderna nel pamphlet Maledetti architetti; nel romanzo  Io sono Charlotte bersaglio fu invece lo stile dei giovani collegiali, e nella raccolta di saggi La bestia umana stigmatizza le nuove abitudini sessuali e linguistiche dei giovani.

In quest’ultimo emergono due sue caratteristiche tipiche. Mantiene uno sguardo obiettivo criticando gli aspetti negativi, ma non tralasciando quelli positivi; presenta i risultati, ma anche i pericoli della genetica, della “neuroscienza”, e delle nuove teorie sulla mente, l’io, l’anima e il libero arbitrio. In tutto questo parlando dei giovani conia il termine “Roccocò Marxists”.

Per quanto riguarda le neuroscienze, ha criticato in particolare i linguisti; ne Il regno della parola ad esempio, ha controargomentato la teoria evoluzionistica del linguaggio di Chomsky. Wolfe sostenne infatti che il linguaggio non è innato, ma una creazione dell’essere umano per differenziarsi dalle altre specie.

Wolfe è stato un eclettico narratore dei nostri giorni. Critico nei confronti di alcuni cambiamenti e fautore di altri. Il vuoto creato dalla sua scomparsa sta proprio in questo: nel suo essere stato un narratore originale e controcorrente.



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