LA FRANCIA: DALLE GUERRE DI RELIGIONE ALL’ILLUMINISMO
Il XVIII secolo fu, soprattutto in Francia, l’età dei lumi, un’epoca di rinnovamento in tutti i campi del sapere e dell’agire umano, nei quali la ragione si erse come unico faro nel buio dell’ignoranza e dell’errore. Ogni individuo venne chiamato ad affinare il proprio intelletto, a rifiutare qualsiasi superstizione verso un’autorità precostituita, a giudicare sulla base dell’esperienza diretta e col supporto di grandi uomini di cultura dediti alla diffusione del sapere. Tra questi celebri pedagoghi vi fu Françoi-Marie Arouet, alias Voltaire, che si cimentò con radicato senso critico nello studio delle più disparate discipline e che, con altrettanto ardore e poliedricità, si adoperò per rendere attuali i propri ideali di tolleranza e libertà.
La nuova forma di conoscenza e coscienza auspicata da Voltaire, infatti, doveva travalicare il piano metafisico e ottenere immediata concretizzazione nella realtà, indirizzare le scelte quotidiane degli uomini e quindi promuovere riforme. Parimenti l’intellettuale lasciava che le proprie riflessioni fossero ispirate da fatti di cronaca, impugnati come cartina tornasole dello stato di civiltà della società francese.
Così fu nel caso della condanna di Jean Calas al supplizio sulla ruota per aver ucciso il proprio primogenito. A incuriosire Voltaire fu il movente: il fanatismo religioso. Inconsueto, a parere del filantropo, che esso si fosse manifestato in un uomo di età avanzata, dato che “questo furore non si attacca di solito che alla giovinezza, di cui l’immaginazione ardente, tumultuosa e debole, s’infiamma per la superstizione”.
Dunque, come spiega una lettera del 1 marzo 1765 all’amico Damilaville, Voltaire si mise al servizio dei Calas affinché l’iniquità da essi subita fosse riconosciuta pubblicamente, così da poter esultare: “dopo l’affermarsi del fanatismo, […] La ragione riporta dunque delle grandi vittorie dalle nostre parti!”.
Secondo Voltaire, infatti, la regione della Linguadoca era particolarmente sorda al richiamo della giustizia nell’ambito di quelle questioni religiose che fin dal secondo Cinquecento avevano assunto i connotati di vere e proprie guerre civili. Sotto il regno di Francesco I (1514-1547), mentre la Chiesa si sgretolava di fronte alla protesta luterana e alla diffusa esigenza di rinnovamento spirituale dell’Europa, cominciò a prendere piede in Francia la confessione calvinista. Quando poi, alla morte di Enrico II (1559), il potere della corona fu insediato da quello della grande nobiltà, la religione divenne uno strumento di lotta politica: la maggioranza cattolica contro il numero sempre maggiore di calvinisti, tra aristocrazia e popolino.
Da allora massacri e assassinii furono perpetrati da entrambe le parti, fino all’emanazione dell’Editto di Nantes (1598), con cui si riconosceva il Cattolicesimo come religione ufficiale del Regno, ma si garantiva anche ai calvinisti libertà di culto e uguaglianza politica. A meno che essi non vivessero a Parigi, Rouen, Lione, Digione e Tolosa, che guarda caso fu l’ambientazione dell’Affaire Calas.
Inoltre, nemmeno cent’anni più tardi, il “cattolicissimo” Luigi XIV dava nuovo inizio alle persecuzioni contro la minoranza protestante con l’Editto di Fontainebleau (1685). Morto il sovrano, le tensioni religiose si attenuarono, ma solo alla fine del XVIII si arrivò a parlare esplicitamente di tolleranza.
Voltaire, Trattato sulla tolleranza, Giunti, Firenze, 2007