Dossier| Come la globalizzazione incide sulle guerre

Può la globalizzazione modificare le guerre? Può esserne addirittura la nuova causa? Per rispondere a queste domande bisogna innanzitutto iniziare con le definizioni.

Globalizzazione è un neologismo coniato dalla rivista The Economist nell’ormai lontano 1962; il termine, diffuso solo negli anni Novanta, designa l’unificazione di tutti i mercati su scala planetaria: questo è stato possibile grazie alle innovazioni tecnologiche ed economiche che hanno spinto verso modelli di consumo e di produzione uniformi e integrati tra loro.
La globalizzazione fu accolta inizialmente con entusiasmo poiché era sinonimo di liberalizzazione con conseguente riduzione di tutti quegli ostacoli che impedivano la libera circolazione della merce e dei capitali. Inoltre, grazie alla globalizzazione era ora possibile ampliare gli scambi commerciali, finanziari e di informazioni sia tra i paesi più sviluppati che tra quelli meno avanzati.
Ma non ci volle molto affinché emergessero anche le conseguenze negative: tra questi, un’omologazione delle idee e degli stili di vita, con conseguente perdita delle singole identità nazionali, il rischio delle disparità sociali – giacché questo sistema favoriva gli stati che già avevano un impero finanziario – riduzione della libertà nazionale e diminuzione della privacy.
Ma non solo, la globalizzazione poteva ora influire anche sulle dinamiche della guerra, e questo almeno per due ragioni.

La prima è dovuta al fatto che le informazioni sono gestite, controllate e diffuse da poche persone, cosicché il bipolarismo che si andò creando dopo la fine della seconda guerra mondiale – uno di stampo occidentale l’altro sovietico – continuò ad agire e consolidarsi nei relativi blocchi contrapposti, ciascuno di essi con caratteristiche specifiche. Sembra un discorso anacronistico, legato cioè agli anni della guerra fredda, ma il bipolarismo occidente-urss perdura anche ai giorni nostri perché le relazioni, le idee e gli scambi, sono fortemente influenzati in base al blocco ideologico di appartenenza. Prendiamo un esempio tra tanti: la guerra del 19-20 marzo 2003 in Iraq. L’operazione, chiamata Iraqi freedoom fu motivata inizialmente dagli Stati Uniti di George W. Bush con l’accusa di possesso di armi di distruzione di massa da parte di Saddam Hussein, il leader dell’Iraq che allora veniva dipinto dai media occidentali come un terribile e dispotico tiranno. Ma l’operazione, oltre a rivelarsi presto infondata, poiché non sussistevano prove della presenza delle terribili armi, si rivelò disastrosa: oltre a destabilizzare l’area, gli americani crearono delle carceri come Abu Ghraib dove i prigionieri detenuti subirono ogni genere di sevizie e di torture. L’occupazione militare presentata inizialmente dalla stampa occidentale come portatrice di stabilità e di modernizzazione, fu invece avvertita nell’ex Unione Sovietica e nell’area mediorientale come una vera e propria invasione.

Il secondo modo in cui la globalizzazione influisce sulle dinamiche della guerra si ha in maniera indiretta, cioè con la creazione di esigenze uniformi. Il mercato globale presenta gli stessi prodotti, le stesse idee e stili di vita molto simili, da ciò ne consegue che si crea l’esigenza di rifornimenti di materie e servizi uguali in più luoghi: queste esigenze devono essere soddisfatte ovunque allo stesso modo, pena la paralisi produttiva o addirittura un ripiegamento delle attività. Tra i beni indispensabili figurano molti materiali, alimenti e servizi. Con la crisi del 1973, l’aumento dei prezzi dei barili di greggio (che fu imposto dai paesi arabi in concomitanza alla guerra del Kippur), avviò una reazione a catena di rialzo dei prezzi senza precedenti. La crisi rese ancora più evidente al mondo il ruolo centrale che il petrolio rivestiva per la stabilità nazionale.

A differenza di altri prodotti il petrolio non è una fonte rinnovabile e si trova solo in alcuni territori: il paese con il maggiore numero di riserve di petrolio è il Venezuela che detiene il 18% del totale mondiale, scoperto tra il 2007 e il 2010. Al secondo posto si colloca l’Arabia Saudita, al terzo il Canada, seguono l’Iran e l’Iraq. Di conseguenza, bisognava assicurarsi il pieno controllo di questi giacimenti, non solo attraverso le royalties petrolifere (che sono percentuali pagate dalle compagnie allo Stato per la produzione di idrocarburi) ma con politiche sempre più invasive fino a sfociare in veri e propri conflitti. È stato il caso per esempio della Libia di Gheddafi nel 2011, della guerra in Iraq del 2003 e degli attuali conflitti in corso in Yemen e in Siria. Proprio con la guerra d’Iraq, gli Stati Uniti sono riusciti ad impossessarsi delle fonti di produzione del petrolio della regione; dall’Iraq è stato poi possibile isolare il secondo potenziale esportatore di petrolio: ossia l’Iran.

Da quel momento in poi la Siria è divenuta il nodo centrale del conflitto poiché la sua posizione strategica era adatta per due rotte energetiche: la prima, voluta da Assad, con il petrolio proveniente dal vicino Iraq fino al Mediterraneo; la seconda voluta dai paesi occidentali, proveniente dall’Arabia saudita che attraversa la Giordania e prosegue fino alla Turchia per arrivare in Europa.
La posizione voluta da Assad gli attira contro l’ira statunitense che vuole toglierlo di mezzo a tutti i costi.
Anche Putin si inserisce in queste dinamiche, poiché, fallito il suo tentativo di esportare il suo petrolio in Europa attraverso la Crimea, nel dicembre 2014 annuncia alle stampe l’accordo con Erdogan che si sarebbe concretato successivamente: il Turkish Stream, un gasdotto che attraverso la Turchia riesce a tracciare una via meridionale verso l’Europa. Grazie al gasdotto la Turchia di Erdogan diventerebbe un corridoio energetico in grado di collegare la Russia all’Europa.

Dopo questo annuncio, il 15-16 luglio 2016 in Turchia scoppia un colpo di stato che si conclude però con l’arresto dei golpisti. La reazione di Erdogan nei confronti degli Stati Uniti è verbalmente molto furiosa e subito dopo pochi mesi firma l’accordo del Turkish Stream con Mosca. Anche qui è da evidenziare la differenza di informazione sovietica e occidentale. Mentre la stampa occidentale dipinge Erdogan uno spietato intento a reprimere i rivoltosi, Mosca si mostra solidale con la Turchia.
La reazione del capo turco si spiega col fatto che egli sospetta una probabile istigazione del Pentagono alla rivolta (il Pentagono infatti collabora con le basi nato della Turchia) perché era impossibile, secondo il presidente, che gli Usa non conoscessero le intenzioni dei militari golpisti.
Ora i conflitti sono in Siria, e anche per quest’area una delle rilevanti motivazioni di questo conflitto è facilmente intuibile.

Rispondendo alla domanda iniziale, può quindi la globalizzazione influire se non addirittura essere causa di guerre? La risposta non può che essere affermativa.

 

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