Uno studio condotto nel 2015 ha calcolato che, ogni anno, approssimativamente otto milioni di tonnellate di plastica vengono riversati nell’oceano. L’incombente gravità dell’inquinamento delle nostre acque è una nozione che ci viene impartita e ripetuta sin dall’infanzia, ma spesso e purtroppo rimane nei fondali della coscienza, classificata come una di quelle cose che non si possono cambiare.
Convinzione errata. Tutta questa immondizia, che ha formato delle vere e proprie isole di plastica nell’Oceano Pacifico, non è necessariamente destinata a rimanere lì ed espandersi per i secoli a venire. (Che, a sentire vari esperti, non saranno molti, se non si inverte la rotta).
Se si recuperassero questi scarti per farne una calzatura sportiva?
E se di queste se ne producesse un milione? E se questo fosse solo l’inizio?
Detto fatto, questa è la missione alla radice della collaborazione tra Adidas e Parley for the Oceans, iniziata con la messa in produzione di cinquanta prototipi del leggendario modello UltraBOOST e presentata nel Luglio 2015 durante un evento delle Nazioni Unite.
Dai prototipi alla prima tiratura in edizione limitata (7.000 paia), il passo è stato breve. E ben presto delle Ocean Plastic Trainer, disegnate da Alexander Taylor e composte per il 95% da plastica riciclata, è stato venduto un milione, a sentire Kasper Rorsted, CEO di Adidas. Un record che ha fatto bene all’azienda quanto all’ambiente, e ci mette davanti alla prospettiva affatto utopica di un futuro più roseo e sostenibile.
Brevissima lezione di calzoleria: la tomaia è la parte superiore di una scarpa, ergo quella che fascia il piede e dà carattere alla calzatura. Per farne una, ci sono volute circa undici bottiglie di plastica, che equivalgono grossomodo a diciassette grammi di materiale.
Contando la quantità esorbitante di sneakers che Adidas ha già venduto e tenendo a mente la loro promessa di convertire la produzione di tutti i loro modelli alla plastica riciclata entro il 2024, non si può non sentirsi ottimisti. Inoltre, nei negozi fisici di Adidas i sacchetti di plastica sono stati rimpiazzati dalla carta, come parte dell’impegno della compagnia a diventare completamente plastic free.
Si spera che la voce di Adidas sia stata sentita da altri giganti dell’industria e che, certamente anche allettati dai profitti, presto siano in molti a seguirne l’esempio.
Parley for the Oceans, organizzazione ambientalista fondata nel 2012 dal designer Cyrill Gutsch, non vuole limitarsi a diffondere la consapevolezza della minaccia che la plastica rappresenta per gli oceani e delle molte implicazioni sottintese.
Parley offre anche una soluzione, sintetizzata nella strategia A.I.R.: avoid, intercept, redesign. Evitare la plastica ovunque non sia necessaria (ed a quella vergine preferire quella riciclata), recuperarla prima che finisca nell’oceano, e sviluppare nuovi metodi ed una nuova mentalità.
L’associazione di Gutsch punta a raccogliere plastica da spiagge ed oceani e farne un nuovo materiale (la Parley Ocean Plastic) da vendere ovunque possa essere utilizzato nella produzione.
“Qualunque cosa sintetica può essere sostituita dalla nostra plastica”, afferma il fondatore. E allora, perché non usarla?
Il fatto che Adidas abbia sposato la causa di Parley, offrendo risorse e tecnologie di prima qualità ed un pubblico altrimenti difficilmente raggiungibile, evidenzia quanto sia reale la responsabilità che i colossi dell’industria hanno nei confronti dell’ambiente e della sua difesa. Oggettivamente, multinazionali del genere hanno di gran lunga più potere e molte marce in più rispetto alle numerose organizzazioni no-profit che ogni giorno combattono per la tutela dell’ecosistema.
In più, sono in grado di rendere la causa mainstream, addirittura di tendenza, e per questo più allettante, sia per i consumatori che per i produttori.
“Da creativo, di solito, ti isoli da tutte queste faccende pragmatiche. E’ facile chiudersi in una torre d’avorio e ripetersi “Sto solo producendo belle cose, belle idee. […] Non sono responsabile, sapranno gli altri cosa fare”.
Cyrill Gutsch
Sarà cattiva coscienza causata dalla consapevolezza che la maggior parte della plastica e microplastica presente negli oceani derivi dalle loro catene di produzione? Bando alle teorie di cospirazione, l’importante è il risultato finale: ovvero che più artisti possibile siano incoraggiati a dare il loro contributo nella lotta ad uno dei problemi ambientali più corrosivi del secolo.