Chernobyl è passata alla storia per il disastroso incidente avvenuto nella vicina centrale nucleare il 26 aprile 1986. Le emissioni radioattive sono state 100 volte maggiori rispetto a quelle causate dalle bombe di Hiroshima e Nagasaki, classificando l’evento al più alto livello di gravità della scale INES per l’estensione dell’area coinvolta e la pericolosità delle conseguenze su popolazione e ambiente. Una vera e propria catastrofe che ha dimostrato la pericolosità dell’impiego del nucleare anche a scopi non bellici.
All’una e ventitré minuti di quella notte i sistemi di sicurezza della centrale erano stati spenti per svolgere alcuni test di sicurezza. Purtroppo i difetti delle tecnologie in uso e le maldestre manovre del personale causarono un’avaria al reattore n.4 e quindi la sua distruzione a seguito di una serie di violente esplosioni. Altrettanto inefficaci furono i primi tentativi di arginare l’incendio e assorbire le radiazioni: la sabbia e il piombo gettati dagli elicotteri non fecero altro che aumentare la temperatura del reattore.
A contribuire ai catastrofici esiti dell’incidente furono anche i provvedimenti presi dalle autorità ucraine, che non comunicarono quanto avvenuto alla popolazione e diedero tardivamente disposizioni per evacuare le zone limitrofe la centrale. Per due giorni la vita a Pripyat, a soli 3 km dal fulcro del disastro, continuò come se nulla fosse Costruita anch’essa nel 1970 per ospitare gli operai dell’impianto nucleare e le loro famiglie, la città venne abbandonata in poco più di due ore e da allora è disabitata, rientrando in quell’area di alienazione teoricamente interdetta all’attività umana perché ancora troppo radioattiva.
Dico teoricamente perché questa zona dal raggio di 30 km, oggi apparentemente rigogliosa, è ancora abitata da chi è troppo ostinato o rassegnato per andarsene. Inoltre il sito della centrale non ha mai smesso di brulicare di attività: l’ultimo reattore è stato spento solo nel 2000 e dall’incidente a oggi migliaia di persone continuano a lavorare alla manutenzione di quanto rimasto e al tentativo di messa in sicurezza del nucleo radioattivo.
Tuttavia per questi operai non sembrano essere prese misure di sicurezza migliori di quelle messa a disposizione dei “liquidatori”, i primi che intervennero per cercare appunto di liquidare le conseguenze dell’esplosione e tra i quali si contano le 32 vittime dirette dell’incidente.
Ciò che ha reso Chernobyl una catastrofe è però l’ampio raggio delle sue implicazioni, in senso spaziale e temporale. Se infatti la città è associato per antonomasia alla tragedia, essa in realtà non è stata particolarmente contaminata dalla nube tossica. Più vicino alla centrale è infatti il confine bielorusso e proprio oltre esso i venti hanno trasportato il 70% dei radionuclidi rilasciati nell’atmosfera: a fronte del 4% del territorio ucraino inquinato, quello bielorusso lo è per il 23%. Senza contare che, sebbene con conseguenze più modeste, la dispersione delle sostanze volatili nocive è stata globale.
Lento e difficoltoso è poi lo smaltimento di queste componenti. Si va dai 10 anni per il cesio ai 90 per lo stronzio, responsabile del cancro alle ossa, fino ai 4.500 per l’amaricium, che causa il tumore ai polmoni, e ai 24.000 per il plutonio. Impossibile quindi per la popolazione delle aree colpite fuggirne gli effetti. In particolare si è constatato un forte calo della natalità accompagnato da un drastico peggioramento delle condizioni di salute dei bambini, vittime di malformazioni, malattie genetiche e malfunzionamenti soprattutto dell’ apparato cardiovascolare e di quello digerente.
Difficile quindi calcolare il numero delle vittime di Chernobyl, che si stima attorno alle 4.000 ma che sembra essere destinato a crescere, soprattutto se si tiene conto è al momento impossibile sigillare in modo definitivo il sito dell’incidente. Nel 2016 una nuova struttura è andata a rivestire il danneggiato sarcofago di cemento costruito di gran carriera nell’aprile 1986 riuscendo a schermare il 95% del combustibile nucleare.
La soluzione non è definitiva, ma la speranza è che nei cento anni di autonomia del nuovo sarcofago gli scienziati possano apportare interventi sempre più efficaci. Intanto ogni anno 15.000 turisti da tutto il mondo si accalcano per visitare la zona morta.
Svetlana Aleksievič, Preghiera per Černobil’, Edizioni e/o, Roma, 2002