Arancia Meccanica, prima di diventare uno dei capolavori cinematografici di Stanley Kubrick, è stato un romanzo di Anthony Burgess, uscito nel 1962. La trama è nota a tutti: ad Alex piace divertirsi coi suoi amici esercitando, in apparenza senza un motivo preciso, l’ultraviolenza. Costretto poi a una forma malsana di rieducazione, smetterà di commettere atti violenti non già a causa di un sincero pentimento, ma per il malessere fisico che il solo pensiero gli instilla. Dopo un tentato suicidio, Alex verrà accudito da quello stesso governo che ha tentato di sedare la sua indole.
Il romanzo, così come il film, ci presentano un mondo distopico, in cui da un lato un governo totalitario reprime gli istinti individuali, dall’altro l’ultraviolenza diventa il passatempo di giovani individualisti ed anarchici. La trasposizione in immagini di Kubrick ben evidenzia nella prima parte quest’ultimo aspetto. Gli atti violenti perpetrati da Alex non sono altro che figli dell’inconscio, egli si configura come uomo nel suo stato naturale. Indicativo l’uso dissacrante che Kubrick fa di noti brani classici come sottofondo delle imprese del nostro anti-eroe: una satira cinematografica, in cui il regista ci racconta e denuncia la realtà della società contemporanea.
Il plot-twist si realizza nella richiesta di Alex di sottoporsi alla “Cura Ludovico” con una battuta significativa: “Voglio essere per il resto della mia vita un atto di bontà“. Ecco dispiegarsi il libero arbitrio nella sua dicotomia: meglio essere cattivi per libera scelta o buoni per imposizione? Kubrick non cela affatto la sua posizione: lo stato di natura è sacro. Un uomo deve poter scegliere di essere malvagio. D’altronde, in ogni essere umano si nasconde una certa cattiveria insita, così come la bontà, bisogna solo decidere quale delle due far prevalere. La ringkomposition è fatta: il libero arbitrio è il punto di partenza e quello di arrivo.
Peraltro è interessante notare lo sconvolgimento che si realizza dopo la cura Ludovico: tutti coloro che erano stati vessati da Alex e dai suoi drughi ora si prendono la loro rivincita. Alex non è mai diventato realmente buono, ma la cura gli procura un malessere fisico ingestibile nel momento in cui il suo istinto violento sta per prendere il sopravvento, tanto da tentare il suicidio.
È con l’epilogo però che Kubrick dà la sua stoccata finale. Il ministro degli Interni, visto il fallimento della cura e per evitare la caduta del governo, chiede ad Alex di collaborare. Furbescamente Alex ottiene di diventare capo della polizia: esercitare la violenza in modo legale, nulla di meglio per il nostro protagonista. Il libero arbitrio vince, aggirando i benpensanti e l’obbligo della bontà. Vince anche l’ultraviolenza in fondo, distopica per una società civile proiettata al bene ad ogni costo, ma unico modus vivendi per Alex.
È palese che Kubrick non avesse la minima intenzione di incitare alla violenza, semmai il contrario, ma, si sa, il film non venne recepito da tutti allo stesso modo. Il regista ricevette diverse minacce affinché il film venisse ritirato dalle sale. Non è forse anche questa una distopica ultraviolenza?