di Federico Lucrezi
Le consultazioni tra il capo dello Stato e i leader delle forze politiche proseguono, tra lo show del Berlusca, a cui un ruolo da non protagonista va terribilmente stretto, gli sproloqui del Dibba (ma non aveva lasciato la politica?) che dà del cane a Matteo Salvini, la Lega e i pentastellati che vedono i sogni di rock and roll dei rispettivi leader affievolirsi giorno dopo giorno e naturalmente l’imbarazzo di Mattarella ormai in una posizione più scomoda di quella di Ventura la sera di Italia-Svezia.
Questo eccentrico potpourri in salsa politica, ironia della sorte, si sviluppa in tutta la sua tragicomica bellezza proprio nei giorni in cui ricorre il settantesimo anniversario della prima legislatura dell’Italia repubblicana. Tecnicamente i parlamentari eletti si sono insediati qualche settimana dopo, ma il 18 aprile 1948, esattamente settant’anni fa, le prime elezioni dopo la controversa sconfitta della monarchia al referendum del ’46 consegnano alla storia il primo Parlamento e successivamente il primo governo della Repubblica Italiana con a capo il democristiano De Gasperi.
La Democrazia Cristiana, primo partito col oltre il 48% delle preferenze alla Camera e al Senato, detiene la maggioranza assoluta dei seggi in entrambi i rami del Parlamento: un quadro politico che riguardato oggi, all’epoca del rosatellum bis, appare quasi surreale.
Ma è soprattutto l’affluenza a far riflettere. Troppo abituati a sentire Enrico Mentana snocciolare ben altri numeri, ogni qual volta in questi anni siamo chiamati alle urne, quelli del 1948 sono quasi fantascientifici: 92.23% alla Camera e 92.15% al Senato. Segno di tempi profondamente diversi, certo, ma anche di un entusiasmo e di una passione per la vita politica del paese oggi assolutamene sconosciuti.
Vediamo l’evoluzione dell’affluenza per Camera e Senato col procedere delle legislature:
Se nei primi decenni repubblicani l’affluenza ha raggiunto picchi ancora più alti, il calo partecipativo degli italiani dalla seconda metà degli anni ’70 è netto.
Insomma, passata l’infatuazione dei primi decenni di vita repubblicana quella tra l’Italia e gli italiani è una storia in piena crisi. La famosa crisi del settimo anno, del settantesimo per l’occasione.
La sfiducia nelle istituzioni, nei partiti e in generale nella politica italiana e il profondo disinteresse verso la cosa pubblica sono sempre più elementi caratterizzanti del nostro tempo. E il trend non è incoraggiante: un sondaggio condotto da Quorum per Sky TG24 a meno di un mese dall’apertura delle urne attestava al 40% i diciottenni al primo voto orientati verso l’astensione. Numeri vergognosi, certo, se si pensa che è questa la generazione che nel prossimo ventennio prenderà in mano il paese, ma che non possono essere ricondotti solo alla scarsa partecipazione attiva dei giovani italiani. C’è molto di più.
Serve un grosso cambio di paradigma.
La demonizzazione della classe politica, le banalizzazione alla è tutto un magna magna, la retorica del sono tutti uguali deve finire, e in fretta. Gli stessi Cinque Stelle, che del cambiamento e della lotta all’establishment hanno fatto una bandiera, hanno contribuito pesantemente ad alimentare il fuoco della sfiducia e dell’odio verso le istituzioni. Hanno provato a convincerci, e in questo sono in buona compagnia, che il principale problema del paese sia la casta, il costo della politica e la disonestà della classe dirigente.
La fotografia del neopresidente della Camera ne è l’emblema. È passato il solito messaggio pauperistico che scorta e auto blu sono un privilegio, un capriccio dell’uomo politico alienato dal potere.
Un messaggio incredibilmente irresponsabile. Una Politica seria, con la P maiuscola, deve spiegare ai cittadini che un obiettivo sensibile quale la terza carica dello Stato su un mezzo pubblico può potenzialmente mettere a repentaglio l’incolumità di tutti i passeggeri e che la scorta a ministri e presidenti non è certo uno status symbol per darsi un tono, quello lo lasciamo a qualche scrittore partenopeo.
L’antipolitica si combatte contrapponendo esempi virtuosi, candidando eccellenze, favorendo un ricambio generazionale. Non certo versando la grappa sul fuoco dell’odio.
Le elezioni del 4 marzo 2018 hanno ribaltato completamente, come un voto di Alessandro Borghese, l’assetto politico del paese. La politica dell’antipolitica oggi occupa molti più seggi di prima.
Oggi più che mai serve un cambio di paradigma netto, o affluenze alle urne come quella del 1948 rimarranno per sempre esclusiva dei libri di storia.