Un pizzico di malinconia, nello scrivere questo articolo. A Series of Unfortunate Events è stato il libro della nostra infanzia; i libri della nostra infanzia. Li abbiamo letti in classe, a casa, sotto le coperte, a letto con la febbre. Li abbiamo consumati, riempiti di sottolineature, di orecchiette: un lettore accanito si riconosce dall’usura dei libri. Soprattutto se si tratta di un lettore in erba.
Per questo motivo, a ventidue anni e alla vigilia di un inizio di laurea magistrale, appena abbiamo saputo della serie tv di Netflix ispirata a questi libri, non abbiamo resistito.
Un grandissimo Neil Patrick Harris -costretto a reggere il confronto con il Jim Carrey del film- è il Conte Olaf, il criminale intenzionato a rubare la fortuna degli orfani Baudelaire. Se dovessimo paragonare la serie tv al film, in generale diremmo che è fatta meglio ma recitata peggio; ma qui ci interessa il paragone con il libro. E quello è assolutamente bilanciato.
Lemony Snicket, l’autore misterioso che racconta la storia dei tre fratelli, è Patrick Warburton: serio, taciturno, ironico, credibile. I due fratelli -incredibilmente simili a quelli del film, e promettiamo che questo sarà l’ultimo paragone- assolutamente nella parte. Neil Patrick Harris, fenomenale.
Forse l’elemento che più ci è mancato è il mistero, svelato troppo in fretta. Non che manchino i colpi di scena, ma sono sempre risolti nel giro di qualche scena. Il libro rapisce i lettori perché non dice nulla, costruisce una piramide di non-detti che sembra interminabile, incomprensibile, inarrivabile. Al settimo libro si ha l’impressione di aver capito ancora troppo poco rispetto alla quantità di informazioni che l’autore ha deciso di nasconderci. Questo per un film non va bene. La verità è che gli spettatori sono più impazienti dei lettori, e crediamo che questo sia un fattore quasi intrinseco nella mente di chi sceglie di essere spettatore piuttosto che lettore. Cerchiamo di spiegarci meglio. Il lettore è costretto a girare le pagine, a far proseguire la storia alla velocità dei suoi occhi, del suo cervello. Può andare avanti, certo, e saltare delle porzioni: ma in questo caso si tratta di lettori impazienti, una specie da cui tenersi alla larga. In generale, i lettori sono abituati e quindi rassegnati all’idea di dover aspettare: è così che funziona. Un gioco magnifico, ma che ha i suoi tempi. Gli spettatori, a loro volta, sono di natura più impazienti: vogliono tutto e subito perché sanno che, male che vada, ciò che aspettano verrà svelato nell’arco di qualche ora -o di qualche episodio, nel caso delle serie tv-. Insomma, è necessario adattare una storia al pubblico cui ci si riferisce e A Series of Unfortunate Events è un esempio perfetto di come un adattamento cinematografico debba necessariamente cambiare il prodotto in questione.
E qui, per una volta, non parliamo di meglio o peggio: i libri di Lemony Snicket sono deliziosi -a ventidue anni non ce la sentiamo di usare un termine più impegnativo-, la serie è fatta bene ed è accattivante. Solo, è necessariamente più veloce. Dopotutto, non si può pretendere di tenere attaccato qualcuno a uno schermo televisivo per due giorni interi: chi si occupa di film questo lo sa bene. Gli scrittori, invece, sanno benissimo che un lettore appassionato è in grado di mettere in stand-by la propria vita, pur di arrivare alla fine della storia. Non importa quanto tempo ci vorrà: è il suo obiettivo.
In ogni caso, tranne per la velocità, le storie corrono in maniera abbastanza parallela. Il regista è riuscito a mettere su uno schermo l’ironia della penna di Snicket e soprattutto è riuscito a farlo in maniera altrettanto divertente -che non è scontato-. La serie è un po’ più adulta e, per quanto fantasiosa, non ha quegli elementi paradossali che solo un bambino può apprezzare e immaginare. Per fortuna, tra l’altro: saremmo stati invasi di tristezza se ci fossimo resi conto di non riuscire più a immaginare ciò che quando eravamo piccoli era così chiaro e lampante nella nostra testa.
Sapevamo da subito che avremmo amato questa serie; per un legame affettivo, naturalmente, ma anche perché ogni tanto è bello misurarsi con esperimenti del passato e rendersi conto di essere cambiati, diversi, più grandi, ma in fondo con le stesse passioni, con la stessa sensibilità.
Rimarremo fedeli al libro, se non altro per una questione morale: prima la lettura, poi la televisione. O almeno, questo è quello che ci veniva detto quando eravamo piccoli e che, nel corso degli anni, si è trasformato in un “prima la lettura” e basta. “Prima la lettura” e la televisione spenta, in generale. Eppure, in alcuni casi vale la pena accenderla, giusto per vedere cosa succede. E, sempre in alcuni casi, vale la pena anche lasciarla accesa e godersi un piacevole ed emozionante tuffo nel passato.