Zehra Doğan è una giovane artista e giornalista turca che nel marzo del 2017 è stata condannata a due anni, 9 mesi e 22 giorni di carcere per aver realizzato un dipinto in cui delle bandiere turche svettano vittoriose sulle rovine di Nusaybin, città al confine con la Siria, colpita duramente tra il 2015 e il 2016 durante un conflitto tra i militanti curdi e l’esercito turco.
La storia di Zehra Doğan è stata riportata al centro del dibattito pubblico grazie a Banksy, il più famoso street artist contemporaneo, che ha realizzato a Manhattan un murale lungo più di venti metri per protestare contro la reclusione dell’artista turca.
Il murale è apparso a New York alla metà di marzo ed è stato realizzato in collaborazione con Borf; la sera di giovedì 15 marzo il dipinto per cui Zehra Doğan è stata condannata è stato proiettato sopra al murale.
Banksy, di cui ancora non si conosce la reale identità, ha dichiarato al New York Times di essersi sentito veramente dispiaciuto per la giornalista turca; secondo l’artista alcune delle sue opere avrebbero infatti maggiormente meritato una condanna rispetto al dipinto della Doğan. Anche Borf, nome d’arte di John Tsombikos, è stato altrettanto toccato dalla storia dell’artista; lo street artist americano era a sua volta stato incarcerato nel 2005, con l’accusa di vandalismo, proprio a causa della sua arte.
Già un altro artista, che ha personalmente vissuto l’esperienza della reclusione, si era esposto nel novembre scorso in difesa di Zehra Doğan, ovvero il cinese Ai Weiwei, il quale aveva scritto una lettera aperta indirizzata all’artista turca. Anch’egli proviene da un paese in cui, come nella Turchia di Erdoğan, la libertà d’espressione non è un diritto acquisito. Per la sua aperta opposizione al regime l’attivista e artista cinese era stato recluso dal 2 aprile al 22 giugno 2011, scatenando proteste e indignazione in tutto il mondo occidentale.
Ma con il loro murale Banksy e Borf non hanno riportato al centro del dibattito mediatico solamente la storia di una giovane donna, una dei tanti giornalisti turchi ingiustamente incarcerati negli ultimi anni sotto il regime di Erdoğan, ma anche l’importanza che la libertà d’espressione riveste nella società. Si osservi infatti il murale di Manhattan: gli artisti hanno disegnato tante sbarre in successione, come ad indicare delle sbarre di una prigione e, dietro ad una di queste celle, appare proprio il viso di Zehra Doğan. Con le mani stringe le sbarre della sua cella, solo in un secondo tempo si nota però che ciò che tiene nella mano sinistra non è una sbarra ma una matita.
Sembra tenerla sollevata in aperto atteggiamento di sfida: l’artista oggi è in prigione ma il suo disegno è conosciuto in tutto il mondo. Perché in fondo non sono ancora riusciti a farla tacere, ma con il suo arresto hanno invece dato maggiore risonanza al suo messaggio.
Si noti infine come negli ultimi anni la matita sia divenuta un simbolo per evocare la libertà d’espressione, dall’attacco a Charlie Hebdo alle stragi di Parigi, a Zehra Doğan. Perché nemmeno qui in occidente può essere percepito come un diritto acquisito, ma necessità invece di una continua ed incessante difesa. E forse è proprio questo che vuole comunicarci Banksy con il suo nuovo murale.