Se si dà del ladro al derubato

Forse questo articolo è un po’ in ritardo. Forse bisognava cavalcare l’onda dell’indignazione. Forse era meglio non parlarne proprio! Ma qui allo Sbuffo, si sa, non ci piace seguire i modi standard di pensare. Promuoviamo un pensiero critico e un’analisi di fatti e comportamenti, guardando tutto ciò che ci circonda. E quindi eccoci qui. Se avete seguito il titolo, complimenti: difficilmente si capirà la vicenda trattata. Non è più fresca, quindi forse il collegamento verrà meccanico. Dunque, lode a voi che avete capito di che si parla. E lode anche a chi è entrato senza averlo capito.

Succede che il 6 marzo 2018 molte persone trovano una strana mail nella loro casella di posta elettronica: il mittente è Spotify (colosso dello streaming musicale, e principale fautore della rivoluzione dello streaming che ha colpito l’industria discografica negli ultimi anni). La mail non è indirizzata a tutti i suoi 160 milioni di iscritti, né sicuramente ai 71 milioni di quelli che vi sono abbonati (il servizio è infatti disponibile in una versione Free, supportata da pubblicità periodiche, e in una versione Premium, priva di pubblicità e con ulteriori funzionalità). È indirizzata a una piccola parte di quegli 89 milioni rimanenti: piccola parte che utilizza l’applicazione in modo improprio.

Spotify
Logo di Spotify

Il testo recita così (citiamo testualmente da La Repubblica):

«Caro utente, abbiamo rilevato un’attività anormale sull’app che stai usando, quindi l’abbiamo disabilitata. Non ti preoccupare: il tuo account Spotify è al sicuro. Se dovessimo rilevare il ripetuto uso di app non autorizzate che violano i nostri termini di servizio, ci arroghiamo ogni diritto, compreso quello di sospendere o cancellare il tuo account.».

In sostanza, l’azienda fondata dallo svedese Daniel Ek inizia una piccola guerra (ovviamente pacifica, anche a giudicare dai toni utilizzati) contro chi ha craccato l’applicazione di Spotify, scaricandone l’.apk (formato delle applicazioni Android) della versione Premium. In sostanza, ha disattivato l’ascolto delle canzoni a chi stesse usufruendo della versione per abbonati senza pagare alcunché né ascoltando le sopracitate pubblicità.

Sarebbe stupido credere che lì a Spotify si siano accorti di questo giochetto solamente adesso, dopo undici anni dalla fondazione. Il motivo per cui questa guerra è iniziata così in ritardo è che l’azienda svedese è pronta a quotarsi in borsa (ne abbiamo parlato qui). E lo fa con estremo ritardo, per svariati motivi. Uno è sicuramente il fatto che per entrare nei giochi di Wall Street serve un valore che Spotify ha raggiunto da poco, ovvero tra gli 11 e i 13 miliardi di dollari. Un altro è sicuramente il fatto che, nonostante ricavi stellari (si parla di quattro miliardi solo nell’ultimo anno), non è mai riuscito a fare un utile, dichiarando perdite anche sostanziose (un miliardo e trecento milioni nel 2016). Una situazione economica dunque promettente, ma per nulla sicura.

È facile quindi fare 2+2: in vista dell’imminente quotazione in borsa (oramai annunciata, in un modo anche particolarmente bizzarro) bisognava ridurre al minimo le perdite di denaro a causa dell’evasione. E il modo in cui hanno agito (una semplicissima mail e un’interruzione del servizio) dimostra una classe incredibile.

Screen dai commenti su Google Play

Questa decisione, però, non è andata giù a molti. Prendendo a esempio esclusivamente il caso italiano, basta visitare la pagina dell’applicazione di Spotify sull’App Store di Apple o sul Google Play Store per leggere i commenti più disparati. Si passa da beceri insulti ( «10 euro al mese? Ma leccatemi le p***e c******i» ) a frasi quasi reazionarie ( «NON CI AVRETE MAI» «Non ci fermerete» ). C’è chi invece si dà un tono ( «Non concordo con la politica aziendale messa in atto da Spotify» ) [e sarebbe da chiedersi quale politica suggerirebbe il soggetto in questione…] e chi, invece, torna alle sane vecchie abitudini ( «Si ritorna a scaricare la musica! :)» )

Ma, in realtà, di tutti questi commenti basterebbe citarne uno per riassumere tutte queste varie forme d’espressione sotto un’unica grande idea.

« Che schifo, devi per forza pagare per ascoltare le canzoni che vuoi ascoltare »

Ecco, mi sono a lungo interrogato su cosa scrivere in questo articolo una volta inserito questo commento. Per un attimo ho creduto anche di terminarlo qui. Ma per non fermarci all’essere dei comuni indignati da tastiera (perché l’ondata di indignazione e di malcontento che ha colpito la “politica aziendale di Spotify” ha visto anche il rinculo di chi si lamentava delle lamentele di questi scrocconi), bisogna fare un passo avanti.

Il più grande morbo dell’industria discografica (e non solo) contemporanea è la pirateria. Piattaforme come eMule, Limewire, Torrent e il peer to peer hanno causato una gigantesca flessione dei guadagni della musica, causando una crisi che andava avanti da 20 anni. Per la prima volta solo nel 2016 l’industria musicale globale è stata in crescita, dopo un lunghissimo ventennio di totale crollo. La crisi che l’ha colpita è un discorso troppo ampio per essere approfondito qui, ma è facile collegare la pirateria a una delle principali cause.

Lo streaming non ha sconfitto la pirateria: Business Insider ci dice che su un campione di 36000 persone un terzo di loro ricorre a metodi per accedere gratuitamente alla musica. Ma ci dice anche che l’avvento della musica on-demand ha salvato l’industria da un baratro che sembrava insuperabile. Lo streaming non è una soluzione di lungo termine, e non rende l’industria sostenibile: ma aiuta a sensibilizzare nuovi pubblici, sempre più globali, al valore intrinseco che la musica ha e fa indirettamente crescere le vendite di album fisici, vinili, concerti e merchandising.

Sembra però che questo concetto non sia passata del tutto. Sembra che la percezione della musica sia totalmente distorta, che l’essere stati abituati a non pagare mai per la musica (perché, tanto, la si piratava) ci porti, appunto, a dire “Che schifo, devi per forza pagare per ascoltare le canzoni che vuoi ascoltare”. È come pensare che l’arte per andare avanti non abbia bisogno di soldi, come sputare in faccia non solo alle grandi major e ai progetti più commerciali, ma anche ai progetti più piccoli e indipendenti che tentano di vivere di musica.

Perché l’affermazione di quell’utente sul Google Play Store riguarda Spotify, sì, ma di riflesso colpisce tutto il settore discografico. Se ritieni che la musica non sia meritevole di denaro (peraltro erroneamente, perché Spotify offre una versione totalmente gratuita del servizio) non comprerai mai un cd. Non comprerai mai un vinile. Non andrai mai a un concerto. E continuerai a usufruire di un prodotto (magari anche in maniera smodata) senza contribuire con un solo centesimo. E se si dà del ladro al derubato, beh, si è perso di vista un punto di riferimento grande.


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