Non era un personaggio che passava inosservato Oliviero Beha, giornalista fiorentino dal gusto per la scrittura vivace e spesso controcorrente, venuto a mancare nel maggio 2017, all’età di 68 anni. Uno di quei personaggi emblematici, un po’ ombrosi, spesso “col dito puntato”, ma figura indiscutibilmente imponente nel panorama del giornalismo italiano dei nostri giorni.
La carriera giornalistica iniziò con Tuttosport e Paese sera, fino alla svolta lavorativa nel 1976 con La Repubblica. Ma all’impegno giornalistico Beha affiancava una molteplicità di interessi e di presenze in diversi campi: fu saggista, scrittore, conduttore radiofonico e televisivo. Nel 1987, insieme ad Andrea Barbato conduce il programma Va’ Pensiero, su Rai 3; successivamente raccoglie un grandissimo successo con Radio Zorro, nata nel 1992, che nel 1995 si fonde con lo storico “3131”, diventando un vero e proprio caso radiofonico. Proprio questo successo fa conoscere ulteriormente il suo nome, accreditandolo ormai fra i volti più noti del giornalismo italiano. Segue anche una versione televisiva del programma, Video Zorro.
Nel 1984 compie la denuncia, insieme a Roberto Chiodi, di un illecito sportivo: i due erano convinti che la partita Italia-Camerun dei Mondiali spagnoli del 1982, vinta dagli italiani piuttosto trionfalmente, fosse stata truccata: questa idea rovinava l’immagine “mitica” della partita; forse, proprio per questo, l’inchiesta non ottenne grande attenzione. Nonostante l’ipotesi non sia mai stata accertata, Beha ha sempre mantenuto la sua posizione e rivendicato i propri dubbi. Già con il suo libro “Anni di cuoio” aveva trattato del mondo del calcio, denunciandone i mali.
L’inchiesta citata è soltanto un esempio fra tanti di uno spirito giornalistico molto arguto, spesso fuori dagli schemi e anche per questo apprezzato dal pubblico, che ne ammirava le prese di posizione intelligenti e mai ingiustificate, sempre legittimate da una lucida ricerca e documentazione sui fatti.
Lo stesso motivo per cui, però, si trovò spesso al centro di polemiche: agli occhi dei critici, i suoi giudizi lapidari erano spesso aggravati da un rifiuto per ogni appartenenza corporativa e ideologica. Eppure, proprio questa sua caratteristica lo rendeva probabilmente un intellettuale diverso. L’amico Goffredo Bettini, in un articolo a lui dedicato poco dopo la sua morte, lo definisce un professionista libero, non ricattabile e non omologabile: e la sua spigolosità, aggiunge, il suo “puntare il dito”, altro non erano che un eccesso di identificazione con la Repubblica e con dei valori di correttezza, responsabilità, senso del dovere. Un anarchico per eccesso d’amore.